Un giusto tra le nazioni o un persecutore di ebrei?
Edward Malinowski, sindaco del villaggio di Malinów, in Polonia, durante la seconda guerra mondiale, è stato un giusto tra le nazioni che salvò degli ebrei o un collaboratore dei tedeschi che invece ne provocò l’uccisione? Forse è stato entrambe le cose? Un tribunale polacco si pronuncerà a febbraio su questa vicenda delicata ed esplosiva dopo la denuncia per diffamazione intentata contro due storici autori di un libro sul sindaco.
Jan Grabowski e Barbara Engelking, due dei più importanti storici che si occupano degli ebrei polacchi durante l’Olocausto, sostengono che “l’anziano del villaggio” polacco avrebbe rapinato una donna ebrea che aveva salvato dai nazisti e avrebbe denunciato altri venti ebrei ai tedeschi, che poi li hanno uccisi. La nipote di Malinowski ha denunciato gli storici, sostenendo che suo zio è un eroe nazionale estraneo agli omicidi e che il suo nome è stato volontariamente infangato per danneggiare la reputazione della Polonia.
Il processo sta facendo scalpore negli ambienti accademici, politici e giornalistici polacchi, perché per la prima volta è stata invocata una vecchia legge per difendere la reputazione del paese da affermazioni fatte su una singola persona, e non da dichiarazioni che accusano genericamente tutti i polacchi di complicità con l’Olocausto. I due storici avvertono che la decisione avrà pesanti conseguenze sulla possibilità di effettuare liberamente ricerche storiche indipendenti e obiettive, sottolineando che i tribunali non dovrebbero essere coinvolti in dibattiti accademici. I gruppi d’estrema destra polacchi, alcuni dei quali agiscono con il sostegno morale e finanziario del governo, sono determinati a difendere il “buon nome” della nazione polacca e non esitano a ricorrere alle vie legali, come in questo caso.
La nipote di Malinowski ha scoperto che il libro Dalej jest noc (Notte senza fine), pubblicato in Polonia nel 2018 e basato sulla testimonianza di Estera Drogicka, una donna sopravvissuta all’Olocausto, attribuisce a Malinowski la responsabilità dell’omicidio di un gruppo di ebrei. In realtà, sostiene la querelante, non solo suo zio non ha assassinato ebrei, ma ha addirittura rischiato la vita per aiutarli. Né lo zio né la sopravvissuta all’Olocausto sono più in vita. Nella denuncia si chiede che Grabowski ed Engelking si scusino, ammettano di aver mentito e risarciscano la querelante con centomila zloty (circa 22mila euro).
Le due verità
Dalej jest noc è stato pubblicato dal Centro polacco per la ricerca sull’Olocausto, un’istituzione importante e rispettata che Engelking ha fondato e dirige, e in ognuno dei suoi capitoli si occupa di una diversa provincia polacca durante l’occupazione nazista. In un capitolo Engelking racconta la complessa storia di Drogicka, che perse la famiglia nell’Olocausto e si nascose nella foresta vicino a Malinów, nella Polonia nordorientale. Lì chiese aiuto al sindaco Malinowski, che le offrì riparo e cibo nel suo fienile, dove la donna si nascose per varie settimane insieme ad altri ebrei. In seguito Malinowski la aiutò ad andare in Germania per svolgere dei lavori forzati con falsi documenti che la facevano passare per cristiana, cosa che le permise di salvarsi. Engelking ha scritto che Malinowski “la rapinò”, cioè l’aiutò in cambio di denaro e beni immobiliari, e non necessariamente per ragioni umanitarie o etiche. E poi ha aggiunto: Drogicka “sapeva che Malinowski aveva partecipato all’uccisione di varie decine d’ebrei, che si nascondevano nella foresta e che l’uomo denunciò ai tedeschi”. Tuttavia dopo la guerra, secondo Engelking, al processo intentato a Malinowski con varie accuse, tra cui quella di aver denunciato degli ebrei ai tedeschi, “la donna testimoniò il falso per difenderlo”.
La nipote di Malinowski ha denunciato gli storici con l’aiuto della Lega polacca contro la diffamazione. Sostiene che le informazioni su Malinowski sono state distorte per infangare la sua reputazione. Secondo lei, è stata omessa volontariamente una parte della testimonianza della sopravvissuta all’Olocausto, quella in cui la donna diceva che Malinowski l’aveva aiutata “per buona volontà”, nonostante lei non avesse soldi. Quella dichiarazione non c’è, sostiene la denuncia, perché contraddice la versione della “rapina” avanzata nel libro. Poi la nipote aggiunge che suo zio “non solo non ha avuto paura di nascondere una donna ebrea – un’azione che avrebbe potuto far condannare a morte lui, la sua famiglia e l’intero villaggio – ma l’ha fatto in modo disinteressato”. Nella denuncia si afferma anche che la testimonianza incriminante contro Malinowski, nel corso del suo processo dopo l’Olocausto, proviene da alcuni abitanti del villaggio con cui l’uomo aveva in corso una disputa, ma che l’ex sindaco è stato poi prosciolto perché altri ebrei, oltre alla donna sopravvissuta all’Olocausto, testimoniarono a suo favore.
Per quanto riguarda la presunta denuncia ai tedeschi, la querelante afferma che nel 1943 i nazisti ordinarono a Malinowski e ad altri polacchi della zona di andare nella foresta per mostrargli dove si nascondevano gli ebrei. In realtà sarebbe stato un altro polacco, proveniente da un altro villaggio, a fornire le prove decisive che portarono alla scoperta e all’uccisione di quelle persone.
I curatori del libro sostengono invece che in seguito la sopravvissuta all’Olocausto dichiarò di aver mentito nella sua deposizione iniziale – quella in cui aveva difeso il sindaco – e che sapeva che l’uomo aveva denunciato degli ebrei ai nazisti, ma non lo aveva detto. Queste nuove dichiarazioni le ha fatte alla Survivors of the Shoah visual history foundation, l’ong fondata da Steven Spielberg che registra e archivia le testimonianze dei sopravvissuti e dei testimoni dell’Olocausto.
“Siamo perseguitati da organizzazioni legate al governo polacco, che creano un’atmosfera di odio e intimidazione”, ha dichiarato Grabowski a Haaretz. Figlio di un sopravvissuto all’Olocausto, Grabowski è emigrato dalla Polonia al Canada, dove insegna all’università di Ottawa. Secondo lui il processo è un “attacco al valore e alla validità della testimonianza dei sopravvissuti all’Olocausto” e dovrebbe essere un campanello d’allarme per chiunque difenda la libertà d’espressione. “Nell’ultima udienza l’accusa ha cercato di mettere in discussione l’affidabilità delle testimonianze degli ebrei, sostenendo che è difficile credere a qualcuno che falsifica il proprio curriculum vitae”, racconta lo storico.
Grabowski ha fatto notare che, dato il contesto, molti sopravvissuti all’Olocausto, anche tra i suoi familiari, sono stati costretti a modificare dati biografici, come nomi, date di nascita, religione e nazionalità, nel tentativo di sopravvivere. Ha anche aggiunto che le organizzazioni polacche e gli altri altri gruppi all’origine della denuncia “non hanno le conoscenze storiche necessarie e non conoscono il significato della metodologia storica e del modo in cui usiamo le fonti della storia”. La vecchia legge su cui si basa la causa è stata ideata per proteggere la reputazione della nazione polacca e permette ai querelanti di denunciare senza sostenere spese legali. Nel 2018 il tentativo di approvare una legge controversa – che avrebbe reso reato il fatto di sostenere che la Polonia sia stata coinvolta in crimini di guerra – è stato poi abbandonato.
Il libro al centro della causa ha 1.700 pagine, divise in due volumi. Descrive la campagna volta all’uccisione di migliaia di ebrei, realizzata con il coinvolgimento – diretto e indiretto – di molti polacchi. Tra questi c’erano gruppi clandestini, poliziotti, pompieri, cittadini comuni e sindaci di città e villaggi. Alcuni hanno ucciso degli ebrei, altri li hanno denunciati ai tedeschi. Il libro si basa su numerose fonti archivistiche, sulla testimonianza dei sopravvissuti e sui documenti ufficiali tedeschi e polacchi redatti durante e dopo la guerra.
(Traduzione di Federico Ferrone)
La versione originale di questo articolo è apparsa sul quotidiano israeliano Haaretz.