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Il general manager, gm, mi viene a prendere all’aeroporto. Lo chiamo gm perché dopo che la corte suprema della Papua Nuova Guinea ha dichiarato illegale il centro di detenzione dell’isola di Manus, quest’uomo ha potuto uscire di prigione e diventare il general manager (direttore generale) di un albergo nella città di Lorengau. Behrouz Boochani ha fatto in modo che alloggiassi in quell’albergo.
Ad accompagnarlo ci sono un collega e un altro rifugiato. Mentre entriamo in città in automobile osserviamo la polizia che blocca parte della strada accanto a una scuola. Alcuni abitanti del luogo sono radunati lì intorno, mentre altri osservano un gruppetto di alberi.
Scopro in seguito che tra quegli alberi è stato ritrovato il corpo di un profugo, Hamed Shamshiripour, con i segni di numerosi colpi e una corda intorno al collo.
Alcune ore dopo incontro Behrouz per la prima volta alla fermata centrale dell’autobus di Lorengau. Me lo sono sempre immaginato con uno smartphone in mano, in un’unione inseparabile. Giornalista, scrittore e rifugiato curdo in fuga dall’Iran, Behrouz è incarcerato a Manus dal 2013. È dall’inizio del 2016 che traduco i suoi articoli che mi invia via WhatsApp, e da allora mi tengo in contatto con lui sempre tramite la stessa applicazione.
Il sistema di frontiere australiano ha rubato anni preziosi della sua vita: è esausto e affamato, ma fiero, vigile e determinato
In questo periodo il suo telefono è stato per lui un’ancora di salvataggio e di contatto con il mondo esterno. Grazie a esso ha girato un film e scritto articoli, dettandoli a persone che si trovavano oltre le sbarre della prigione, e adesso il suo libro, No friend but mountains (Nessun amico a parte le montagne).
Ci salutiamo mentre lui sta finendo una telefonata. Il sistema di frontiere australiano ha rubato anni preziosi della sua vita: è esausto e affamato, ma fiero, vigile e determinato. Questo nonostante non abbia avuto niente da mangiare tutto il giorno, nonostante il caldo, il sudore e la responsabilità di dare notizie e comunicare con la stampa australiana e internazionale.
Nello spazio di alcuni giorni riusciamo a conoscerci davvero per la prima volta. Io incontro altre persone e traduco articoli. Poi, dopo che l’intensità, lo stress e la rabbia sono un po’ svaniti, cominciamo a rivedere i capitoli di No friend but mountains, di cui ho già tradotto quasi l’ottanta per cento.
Behrouz ha cominciato a scrivere appena sono cominciati il suo esilio e la sua incarcerazione. Ha continuato anche quando per due volte gli è stato confiscato il telefono e un’altra volta gli è stato rubato.
Behrouz ha cominciato all’inizio del 2015 a inviare via sms alcune parti dei capitoli a Moones Mansoubi, la sua primissima traduttrice, nonché consulente alla traduzione per questo progetto. Lei prima ricomponeva in capitoli i messaggi di testo, seguendo le istruzioni di Behrouz, poi mi mandava via email i pdf. Ogni capitolo era un lungo messaggio di testo di lunghezza compresa tra le novemila e le 17mila parole.
Mentre traducevo dal persiano all’inglese, mi consultavo regolarmente tramite WhatsApp con Behrouz, il quale aggiungeva alcuni paragrafi ed effettuava cambiamenti.
Il mio processo di traduzione comprendeva anche delle sessioni settimanali con Mansoubi o con Sajad Kabgani, un ricercatore iraniano che vive a Sydney. Mentre traducevo, Behrouz continuava a scrivere il libro, comunicando coi suoi amici e i suoi consulenti letterari, Janet Galbraith, Arnold Zable, Kirrily Jordan e Mahnaz Alimardanian in Australia, e gli intellettuali e pensatori creativi Najem Weysi, Farhad Boochani e Toomas Askari in Iran.
Qui a Manus Behrouz legge l’originale in persiano mentre io correggo l’inglese. Ci fermiamo e discutiamo alcuni passaggi, significati, sfumature e cambiamenti. Ci concediamo anche digressioni ed esploriamo idee, simboli, storie e teorie che vanno ben oltre le pagine di questo testo. Descrivendo il suo pensiero e il suo processo di scrittura, spiega: “Il libro è il copione di uno spettacolo teatrale che incorpora mito e folclore, religiosità e laicità, colonialismo e militarismo, tortura e confini”.
Surrealismo
Il metodo di traduzione richiede una forma di sperimentazione letteraria. E il processo è una forma di attività filosofica condivisa.
Cercare di conservare la struttura della frase quando si traduce la letteratura persiana in inglese produce passaggi inutilmente lunghi e difficili. La letteratura scritta in persiano consiste perlopiù di frasi formate da molte e consecutive proposizioni elaborate e variate. Il soggetto è all’inizio e il verbo è solitamente inserito alla fine.
Gli schemi e il flusso di proposizioni relative, sinonimi, immagini e allusioni poetiche e culturali permette ai lettori persiani di muoversi agilmente tra le lunghe frasi grazie a una combinazione di melodia, immaginazione, anticipazione e consolidamento.
In inglese la stessa catena di proposizioni all’interno di una frase diventa macchinosa da leggere, perdendo buona parte della sua carica ritmica. Dividere le frasi in molte altre più piccole è utile. Inoltre riflette la soggettività frammentata e interrotta, nonché le conoscenze, dei rifugiati incarcerati.
In questo libro opinioni politiche e racconti storici incontrano l’analisi filosofica e psicoanalitica. Queste vengono inquadrate o sostenute dal mito, dall’epica e dal folclore provenienti da varie tradizioni, in particolare curda, persiana e manusiana. È un anti-genere. Io chiamo questo stile “surrealismo raccapricciante”.
In alcuni passaggi significativi, sintagmi nominali e nomignoli vengono inoltre scritti in maiuscolo per sottolineare lo stato di persona e la prosa persiana viene tradotta in inglese in versi. Per esempio:
Per ammazzare il tempo serve un trucco semplice/ Allungare la mano e trattenere un altro tramonto/ Un altro dei tramonti dai mille colori di Manus/ Poi allungare la mano e trattenere un’altra notte/ Un’altra delle cupe notti dell’isola/ Un ciclo futile…/ Giorno e notte si alternano/ Sotto l’ombra di un vecchio albero.
Behrouz e io ci capivamo a vicenda. In realtà l’équipe di traduzioni comprendeva in sé una sorta d’intenzione collettiva o un operato condiviso. Le nostre interpretazioni letterarie e filosofiche si sono evolute nel corso del processo. Ma l’obiettivo comune, fin dall’inizio, è stato produrre una narrazione viscerale, un capolavoro avvincente che raccontasse un aspetto centrale del regime carcerario: la tortura sistematica.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato su The Conversation.
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