Il 23 marzo la Spagna ha cominciato la seconda settimana d’isolamento nel peggior modo possibile: con la morte di 462 persone in 24 ore. È l’incremento più alto registrato finora in un giorno, e consolida una tendenza che nessun esperto si aspetta possa cambiare presto. “Siamo ancora in una fase di crescita del virus, e la cosa durerà ancora per qualche tempo”, prevede Pere Godoy, presidente della Società spagnola di epidemiologia (See).
Il numero delle vittime dall’inizio dell’epidemia è salito a 2.182, il che significa che alla Spagna sono bastati tre giorni per raddoppiare i mille morti registrati il 20 marzo. Un ritmo che non è stato toccato né dalla Cina né dall’Italia (il paese più colpito dal virus, dove c’è voluto un giorno in più per raddoppiare i primi mille morti).
Inoltre la Spagna sta assistendo a un’espansione territoriale dell’epidemia molto più accentuata rispetto all’Italia. In entrambi i casi, circa il 90 per cento dei primi cento decessi si è concentrato in tre regioni: per l’Italia si è trattato di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, in Spagna i primi focolai sono stati Madrid, il Paese Basco e la Rioja (le due regioni hanno condiviso lo stesso focolaio), e Aragón.
Più dell’80 per cento dei seimila decessi registrati in Italia continua a verificarsi nelle stesse tre regioni, una percentuale che in Spagna è scesa al 65 per cento. Il motivo è che, a differenza dell’Italia (dove nel resto del territorio continuano a registrarsi tassi di letalità relativamente bassi), in Spagna si è avuta un’improvvisa accelerazione dei casi in altre regioni: Catalogna, Castilla e León, e Castilla-La Mancha. L’incremento, in misura minore, riguarda anche la Comunità valenciana.
È stato un errore permettere una grande dispersione geografica delle persone nei giorni precedenti all’entrata in vigore dell’isolamento
“Osserviamo che un gruppo di regioni, senza arrivare ai tassi di quelle più colpite, ha registrato un notevole aumento dei morti nell’ultima settimana. In Italia non è successo”, spiega Daniel López Acuña, professore associato della Scuola andalusa di sanità pubblica ed ex direttore della sezione Health action in crises presso l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Secondo Acuña la cosa potrebbe essere dovuta al fatto che “in Italia è stata maggiormente ridotta la mobilità intorno ai primi focolai, mentre in Spagna è rimasta alta nei giorni precedenti alla dichiarazione dello stato di allerta”.
Sebbene gli esperti ritengano che sia “ancora presto per trarre conclusioni sostenute da prove scientifiche”, anche Pere Godey pone l’accento sui movimenti precedenti alla dichiarazione dello stato di allerta. “Credo sia stato un errore permettere una grande dispersione geografica delle persone nei giorni precedenti all’entrata in vigore dell’isolamento. Questo potrebbe aver facilitato la diffusione del virus”.
Un’altra spiegazione avanzata da López Acuña è “lo stillicidio di casi importati dall’Italia che sicuramente è avvenuto in Spagna nei giorni precedenti all’individuazione dei contagi locali”. “Sicuramente è stato più intenso e disperso rispetto a quanto accaduto tra Cina e Italia, il che spiega l’attuale aumento osservato in queste regioni”, afferma.
Joan Ramon Villalbí, ex presidente della Società spagnola di sanità pubblica e amministrazione sanitaria (Sespas), ritiene che in questo processo abbiano influito anche le differenze esistenti tra Spagna e Italia. “È probabile che la Spagna sia più integrata dell’Italia in quanto a flusso di circolazione delle persone, dove ci sono enormi differenze tra nord e sud”, sostiene.
Questo spiegherebbe perché una regione molto popolata come la Sicilia, dove vivono più di cinque milioni di persone, abbia registrato finora appena 13 decessi. Ma non perché un’altra come la Toscana (3,8 milioni di abitanti) abbia a sua volta registrato un impatto molto ridotto. Toccherà agli esperti valutare se le cause del fenomeno sono “una combinazione” di quelle esposte in precedenza.
Durante la sua conferenza stampa quotidiana, il coordinatore per le emergenze del ministero della sanità, Fernando Simón, ha cercato di fornire alcuni dati positivi e ha sottolineato che si osserva già un certo “appiattimento” della curva che registra l’aumento progressivo dei casi. “L’aumento delle segnalazioni sta progressivamente rallentando. Ma non abbiamo ancora la certezza di aver toccato il picco”, ha affermato.
Segnali incoraggianti
Le autorità sanitarie osservano con speranza l’aumento delle persone guarite, che sono ormai 3.355, e il fatto che tra gli oltre 18mila ricoverati sia leggermente calata (dal 15 al 13 per cento) la percentuale dei malati nei reparti di terapia intensiva, una delle cause di sovraccarico del sistema sanitario. Sono “dati promettenti, che indicano che le tendenze sono già state influenzate dalle misure” d’isolamento decretate, ha detto Simón.
In totale i casi confermati il 23 marzo sono cresciuti di 4.717 unità, superando i 33mila totali. Continuano a crescere anche le persone in terapia intensiva, ormai 2.355, il 32 per cento in più rispetto al 20 marzo. “Se tutto procederà nella direzione che ci aspettiamo”, ha continuato il coordinatore per le emergenze, “è probabile che tra non molto arriverà un giorno in cui cominceremo a revocare progressivamente” le limitazioni di movimento della popolazione. Fino ad allora, tuttavia, il sistema deve migliorare la sua risposta in vari aspetti critici, che finora sono stati sopraffatti dall’epidemia.
Uno dei più importanti è la capacità di sottoporre ad analisi tutti i casi sospetti, che dipenderà dall’aumento dei test rapidi annunciato dal ministero della salute una settimana fa. “Hanno cominciato ad arrivare il 19 marzo ed è cominciata la distribuzione alle regioni, dando la priorità a quelle più colpite”, ha spiegato Simón, senza però offrire dati concreti. I test saranno distribuiti in primo luogo alle case di riposo.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su El País.
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