A un certo punto di Dope boys alphabet, il documentario sulla storia di Noyz Narcos uscito da poco su Prime Video, il suo manager Ciro Buccolieri dice che la differenza tra Noyz e gli altri rapper è che lui “non fa gli album, ma i film”. Che significa? “Credo sia un’allusione al fatto che riempia le canzoni di immagini, a una scrittura cinematografica”, spiega Noyz al telefono. Poi riflette: “O forse si riferisce al modo in cui lavoro. Ogni volta è un parto, sono pignolo da morire”. Credo più alla seconda risposta: tra gestazioni di almeno due anni, scontri con i produttori, un approccio feroce e sofferto alla musica e tanta vita vissuta a precederli, i suoi dischi sono un’eccezione rispetto al modo di concepirli di oggi, che lui definisce “cotto e mangiato”.

Ma è proprio il personaggio di Noyz, cioè Emanuele Frasca da Roma, a rappresentare un cortocircuito della scena rap. Quarantadue anni, ex tatuatore, legatissimo alla città in cui è nato, nonostante sia schivo e poco incline alle interviste è l’unico italiano a mantenere un successo relativamente grande – dischi di platino, tour nei club sold out, collaborazioni internazionali – pur restando alternativo, estremo, difficile da digerire. Ha cominciato nel 2000 con il collettivo dei Truceboys, poi diventato TruceKlan, insieme a nomi di culto come Gel, Metal Carter, Chicoria. E da allora non è cambiato: testi crudi e voce greve, attitudine punk, estetica di sangue e teschi, citazioni di film splatter, metriche asfissianti, odio per le istituzioni. Al centro di tutto, la sua vita fatta di eccessi e disagio. Alcuni lo considerano una religione, si tatuano addosso le sue frasi, le inseriscono nelle bio di Instagram. E poi ci sono le basi: prima vicine al metal (specie nell’esordio Non dormire) e adesso crepuscolari, sempre grezze. Night Skinny, suo collaboratore da anni in veste di producer, dice che il suo sguardo gli “fa paura”.

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Io non ci avevo mai parlato, con Noyz. Di lui mi colpiscono l’essenzialità delle parole che dice, il non parlarsi mai addosso, ma anche una certa educazione, l’umiltà, la professionalità. Lo scrivo non perché ciò costituisca una notizia in sé, ma perché Dope boys alphabet è pieno di immagini d’archivio che mostrano un ragazzo rude, “che odia”. Invece la sensazione è di una persona che dall’epoca non è cambiata, certo, ma che ha incanalato quella rabbia e quel malessere dentro un percorso puramente artistico, che ha creato una musica valida non solo nell’underground ma capace di adeguarsi ai tempi del marketing e delle mode. Un professionista.

Questo percorso è partito nel 2010, quando l’album Guilty ha cominciato a sgrezzare suoni e testi, ed è finito con Enemy (2018), in cui collaborava con una nuova generazione di artisti, da Rkomi a Carl Brave, da Achille Lauro a Coez e Capo Plaza, accettando di contaminarsi. Doveva essere l’ultimo disco della sua carriera. “Non trovavo il mio posto in un mercato dominato dalla trap. Non ho niente contro, ma io sono più estremo e integralista. E volevo smettere. Solo che la risposta del pubblico è stata talmente calda che ho desistito”, dice. Per soddisfazione personale, quindi. Per “fiuto degli affari”. Ma anche per la gente.

Infatti uno dei capitoli più significativi di Virus – il suo nuovo album uscito il 14 gennaio, seguito di Enemy – è Dope boy, spaccato autobiografico che racconta di quando le persone lo fermano per strada, chiedendogli di fare ancora la musica con cui sono cresciuti. Ma non c’è divismo in tutto ciò. “Mi piace essere generazionale, avere fan che non usano neanche i social, non fanno ‘rumore’ nel dibattito, ma concepiscono la musica come me. Tutto questo è per loro”. E in ogni caso io e lui concordiamo che, al di là delle nicchie, l’interesse generale sta tornando verso forme di hip hop più ortodosse nella metrica, nei suoni e nel formato, come testimonia il successo degli ultimi lavori di Marracash e Gué.

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A maggior ragione Virus, per stessa ammissione del suo autore, non vuole tradire i codici di sempre, per quanto figlio dell’esperienza e della voglia di sperimentare. Quello che una volta sfogava odio e rancore, infatti, si è trasformato in un rapper maudit che ha affinato la penna. E ora ha cominciato a scrivere direttamente in studio. “Prima era diverso: chiuso in casa ci lavoravo per mesi, era un tormento”, racconta. “Adesso capisco subito se sono in giornata, quindi lo faccio di getto, come se accendessi un interruttore. Dopo limo ciò che viene fuori. Chiamala esperienza, maturità. In questo processo è fondamentale il contributo del produttore, di chi si occupa delle basi delle canzoni, perché siamo in studio insieme, ci stimoliamo a vicenda. Voglio che sia un rapporto vero, fisico. Per anni ho sentito i producer per email: contattavo quelli che mi piacevano, mi inviavano delle tracce, sceglievo su quali comporre le rime e amen. Oggi preferisco lavorare dal vivo, fianco a fianco. In pochi, fidàti”. I “pochi, fidàti” a questo giro sono Mace (che ha curato l’outro Victory lap, un gospel arioso che per Noyz è “stupendo”), Sine, che porta la componente urban, e Night Skinny, autore di gran parte delle musiche dell’album, in quota rap più classico.

Il risultato è difficile da inquadrare, tra momenti in cui tutto sembra rallentare (Cry later, con ritornello morbido a colpi di autotune di Sfera Ebbasta) e altri in cui l’impianto suona crudo e minimale, quasi disturbante (Foot locker) come le storie di ansia perenne che racconta. “Guardami guidare col ginocchio mentre leggo la cartina” rappa in Volante 4, e sembra di perdersi con lui, per strada con l’ansia di sempre. Sicuramente è un lavoro stimolato influenzato della pandemia (”non è stato semplice da registrare, abbiamo proseguito a singhiozzo tra i lockdown“), e certo ha un titolo a effetto (”il nome Virus è venuto come un’illuminazione dopo averlo registrato, anche se cercavo solo una parola inglese che ne racchiudesse il senso, come già avevo fatto negli album precedenti”), però resta complesso da collocare nel percorso di Noyz. Se Enemy rappresentava un’apertura al nuovo, a un sound meno estremo, qui c’è l’imbarazzo della scelta. “Per me, è semplicemente il più vario che ho fatto: introverso e cattivo, duro e malinconico”.

Da un lato per la prima volta ci sono collaborazioni internazionali, con Raekwon del Wu-Tang Clan e Cam’ron, stelle del rap statunitense la cui presenza, qui, è un attestato di stima. “Li ho cercati io, ma non è gente che si muove a caso”, spiega Noyz. “Il fatto che si siano interessati alla mia storia e decidano di mandarmi le loro strofe significa molto per il lavoro che ho portato avanti negli anni”. E ci sono, sempre per la prima volta, anche pezzi che somigliano più a canzoni tradizionali. Sono frutto di session di scrittura collettiva a cui hanno partecipato Ketama 126, Franco 126 e Coez, figli della strada ma con un percorso più pop di Noyz. Tutti insieme in una villa, per scambiarsi strofe, idee, pareri. E in brani come Blister e Volante 4 si sente la loro mano, ma in maniera inaspettata: le strutture sono canoniche, le rime morbide, ma testi e ritornelli non sono facili, anzi perfino più cupi e malinconici di quelli di Enemy. Prendiamo Spine, con Coez: è un canto d’amore distante da quel My love song che scomodava paragoni col sacro con toni a tratti blasfemi e che tanta attenzione gli aveva portato nel 2013, ma contiene una metafora da cronaca nera efficace, che in pochi possono permettersi: l’amore è lei, sì, ma con una pistola in mano. Crime story. “Mi sono spogliato delle vesti del bastardo e maledetto”, dice. “Coez in questo mi ha aiutato, aveva paura a farlo. Paura che la gente non mi riconosca e continui a chiedere le solite cose. Ma sono contento di sfumare il mio immaginario anche in questa nuova chiave, diciamo, sentimentale. Sempre tenendoci dentro la dose vincente di realness. Tanto sono sempre io, ecco”.

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E l’altra faccia dell’album, che procede secondo il solito copione, lo conferma. Con il padre (lui) che chiama volentieri a raccolta i figli (le nuove generazioni, da Rasty Kilo a Speranza e Geolier, perché “il confronto è fondamentale”), lo stornello romano arrogante e autocelebrativo (Virus), l’odio “per colazione”, l’inno di appartenenza alle case popolari (la stessa Cry later). E un recupero delle radici attraverso Verano zombie pt.3, che chiude una serie di Verano zombie risalenti rispettivamente al 2005 e al 2007, nella quale torna a rappare con Metal Carter e Gemello. Anche stavolta Noyz dice di averlo fatto per “la gente che lo chiedeva da anni”. Ma è tutto qui? “In effetti no, volevo anche dare un ricordo di ciò che era prima la mia musica”.

Perché se Enemy era ancora inserito in un percorso di sgrezzatura, Virus è il primo album davvero a sé stante dal passato, che apre i conti con il futuro. La carta d’identità dice quarantadue, il contratto di lavoro è ricco e siglato con una major, gran parte del disagio che raccontava all’epoca del Truceklan è sparito dalla sua vita. Molto è cambiato intorno a lui, qualcosa sta cambiando anche nella sua musica. Nel documentario si dice che, ascoltando i pezzi storici, si ha l’impressione che lui tiri fuori il peggio di sé al microfono; e adesso? “Adesso non ci sono solo sentimenti negativi nei miei brani, per fortuna. Certo, l’odio c’è ancora: odiavo lo stato a vent’anni perché mi deludeva, lo odio ancora perché continua a farlo. Ma la vita, soprattutto quella professionale, mi ha dato delle benedizioni”.

Mai tanto nuovo, mai tanto vecchio. “Non sono qui perché ho fatto la hit facile”, conclude. “Sapessi quante collaborazioni che mi avrebbero portato visibilità ho rifiutato. Sono arrivato dove sono perché ho preso a testate il mondo della musica: il mio successo è figlio della mia coerenza, dell’odio che ho sprigionato, dei pezzi truci. In questo sono un’eccezione, è vero. Proprio per questo non potrò mai cambiare, la gente non mi crederebbe più”. E così Virus, alla fine, è un altro bel film firmato Noyz Narcos.

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