La disuguaglianza sta aumentando?

In gran parte delle economie più sviluppate del mondo la disuguaglianza di reddito – aumentata sensibilmente dagli anni settanta – è stata indicata come causa di scontri politici sempre più accesi.

Nella seconda metà del ventesimo secolo la crescita economica è stata costante ed è ripartita con slancio dopo la crisi finanziaria del 2008-2009. Eppure la ricchezza generata non è arrivata a tutti. Ci sono stati grandi vincitori, ma anche grandi sconfitti.

Secondo Angus Deaton, premio Nobel per l’economia e tra gli autori di uno studio quinquennale sulla disuguaglianza nel Regno Unito per conto dell’Institute for fiscal studies (Ifs), “la sensazione che il capitalismo contemporaneo non porti benefici a tutti è molto diffusa. Nel Regno Unito molti pensano che Londra assorba gran parte della ricchezza e che ci siano altre città con buoni risultati, mentre grandi aree del paese sono in difficoltà”, dice.

Le cause sono tante e riguardano le politiche fiscali, la tecnologia, la globalizzazione, la deregolamentazione, l’istruzione, l’indebolimento dei sindacati e l’austerità.

E a livello globale?

Durante il diciannovesimo secolo e per gran parte del ventesimo, la disuguaglianza tra i paesi è cresciuta esponenzialmente, con le economie più sviluppate che si sono allontanate sempre di più dai paesi poveri.

Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) di recente è stato ristabilito un po’ di equilibrio grazie alla crescita di molti paesi in via di sviluppo, a cominciare da Cina e India.

Il Regno Unito è tra i paesi in Europa dove c’è più disuguaglianza. Ma meno che negli Stati Uniti dove, tra i paesi più ricchi, ci sono le situazioni più estreme. Secondo l’indice di Gini il Sudafrica è il paese dove si registra più disuguaglianza. I paesi scandinavi tendono ad averne livelli contenuti. Mentre secondo la Banca mondiale l’Ucraina è il paese dove la disuguaglianza è minore.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

Branko Milanović, uno dei maggiori esperti mondiali su questo tema, ritiene che l’aumento della globalizzazione abbia fatto crescere la disuguaglianza nei paesi più ricchi, e che a beneficiarne sia stato soprattutto l’1 per cento più ricco del pianeta.

Come misurare la disuguaglianza?

Il principale strumento di misura della disuguaglianza è il coefficiente di Gini, conosciuto anche come indice Gini. Chiamato così per Corrado Gini – statistico italiano che ha sviluppato il metodo all’inizio del ventesimo secolo – l’indice prevede un punteggio da zero a cento per misurare la distribuzione della ricchezza in un paese. Un coefficiente zero rappresenta una situazione di uguaglianza totale, mentre un coefficiente cento corrisponde alla disuguaglianza estrema, in cui una singola persona possiede tutte le ricchezze di un paese.

Negli anni novanta il coefficiente di Gini per il Regno Unito è rimasto a metà tra trenta e quaranta, e nel nuovo millennio ha raggiunto il valore di 35,1.

Dati alla mano, dunque, il governo può sostenere che la disuguaglianza non sia in aumento ma che al contrario resti più o meno la stessa. Questo però non vuol dire che la disuguaglianza non sia alta. All’inizio degli anni sessanta, infatti, il coefficiente di Gini era intorno a 26, dove è rimasto fino alla fine degli anni settanta.

E gli altri strumenti di misura?

Alcuni analisti sostengono che il coefficiente di Gini possa essere fuorviante e nascondere la portata reale della disuguaglianza. Secondo Robert Joyce, vicedirettore dell’Ifs, “il coefficiente di Gini non evidenzia molti aspetti importanti, come il fatto che l’1 per cento più ricco della popolazione si stia allontanando sempre di più da tutti gli altri”.

Esistono metodi diversi, come l’indice di Palma, un confronto tra il reddito controllato dal 10 per cento più ricco e quello in mano al 40 per cento più povero, o il rapporto 90:10, che paragona il reddito di chi ha superato il 90 per cento nella scala della ricchezza a quello di chi è arrivato appena al 10 per cento. Questi metodi, in generale, confermano le tendenze evidenziate dal coefficiente di Gini: un aumento rapido della disuguaglianza dall’inizio degli anni ottanta, e una situazione stabile negli ultimi dieci anni.

Ma da un’analisi più approfondita emerge una storia diversa. Le valutazioni dell’Ifs mostrano che il reddito controllato dall’1 per cento delle famiglie più ricche è quasi triplicato negli ultimi quarant’anni, passando dal 3 per cento della fine degli anni settanta all’8 per cento di oggi.

Nel 2017 lo stipendio medio di un amministratore delegato di un’azienda inserita nel Financial Times stock exchange 100 (Ftse) era 145 volte più alto del salario medio nazionale, mentre nel 1998 era “appena” 47 volte maggiore. Oggi, considerando l’inflazione, le famiglie meno ricche guadagnano poco di più rispetto a quanto guadagnavano alla metà degli anni novanta.

In un contesto segnato dall’austerità e dalla debolezza economica dopo la crisi finanziaria, gli accademici suggeriscono che la disuguaglianza percepita dall’opinione pubblica sia aumentata nonostante l’indice Gini sia rimasto sostanzialmente uguale.

Gli economisti amano le analogie. Eccone una sull’impatto della disuguaglianza: quando in autostrada il traffico si blocca, gli automobilisti perdono la pazienza se la fila accanto scorre di più, lasciandoli intrappolati. Negli ultimi dieci anni la stessa sensazione sembra aver preso piede tra la maggioranza delle persone, che hanno visto la crescita economica migliorare il tenore di vita solo di pochi fortunati.

“La scintilla che ha reso le persone più consapevoli è stata la crisi economica, con il rallentamento della crescita”, spiega Milanović “Il problema non è emerso quando Bill Gates o Jeff Bezos sono diventati ricchi, ma quando i redditi non sono aumentati in modo corrispondente alle aspettative della popolazione. A quel punto è emersa la sensazione che qualcuno, al vertice, si stesse accaparrando tutte le ricchezze”.

Nel Regno Unito gli stipendi medi, al netto dell’inflazione, restano al di sotto dei livelli precedenti alla crisi finanziaria, ma le persone che guadagnano più di un milione di sterline all’anno stanno ricominciando a ricevere premi ancora maggiori.

Esistono altri tipi di disuguaglianza?

Di solito, quando pensiamo alla disuguaglianza, ci concentriamo sul reddito e sulla ricchezza. Ma esistono differenze che vanno oltre gli standard di vita materiali, che ricadono nell’ambito della sanità, dell’istruzione e delle mobilità sociali, e anche in termini di genere, etnica, età, collocazione geografica e appartenenza ai gruppi sociali.

Deaton è convinto che i cambiamenti nelle politiche che riguardano l’istruzione, a cominciare dall’allargamento dell’accesso all’università, potrebbero avere avuto un impatto sulla disuguaglianza.

“Abbiamo un’élite che pensa di aver fatto tutto da sé e di essersi guadagnata la sua posizione privilegiata, e persone che non hanno superato gli esami e si sentono abbandonate. Per prima cosa pensano che il sistema sia truccato (un’opinione comprensibile), ma poi se la prendono anche con se stesse”, spiega. “Abbiamo creato un’aristocrazia del merito e tutti quelli che non ne fanno parte sono piuttosto incazzati”.

Secondo l’ufficio nazionale di statistica del Regno Unito, il 10 per cento più ricco delle famiglie guadagna 6,8 volte di più rispetto al 10 per cento più povero, ma possiede risorse 290 volte più grandi.

Il livello di ricchezza nel Regno Unito – includendo le proprietà, i risparmi, le azioni e le pensioni – è aumentato del 15 per cento tra giugno 2014 e giugno 2016, raggiungendo il record di 12.800 miliardi di sterline. Questa riserva, però, è distribuita in modo diseguale: il 10 per cento più ricco delle famiglie possiede quasi metà delle ricchezze, mentre quelle del 20 per cento più povero si sono ridotte in termini reali.

Quasi l’80 per cento delle aziende britanniche paga gli uomini più delle donne, il cui reddito in media è il 20 per cento in meno rispetto a quello degli uomini. I lavoratori di origine pachistana o bengalese hanno il salario medio più basso tra tutti i gruppi etnici. I bengalesi guadagnano in media il 20,1 per cento in meno rispetto ai lavoratori britannici bianchi.

Inutile precisare che nel Regno Unito è aumentata anche la disuguaglianza tra le regioni e le generazioni. Tra i contribuenti appartenenti all’1 per cento più ricco della popolazione, la percentuale dei residenti a Londra è aumentata del 20 per cento dall’inizio del nuovo millennio.

Quali sono le conseguenze della disuguaglianza?

In un sistema basato sull’economia di mercato è inevitabile un certo grado di disuguaglianza, ma le differenze estreme possono avere conseguenze gravi. Tra le più visibili degli ultimi anni c’è la polarizzazione della politica e l’ascesa del populismo, nel Regno Unito e in altri paesi del mondo.

In molti hanno attribuito all’aumento della disuguaglianza la Brexit e l’elezione di Donald Trump, così come l’affermazione di nuovi movimenti politici in Europa.

Ted Howard, cofondatore dell’istituto di ricerca Democrazia collaborativa, un istituto di ricerca orientato a sinistra, ritiene che tre individui – Bill Gates, Jeff Bezos e Warren Buffett – posseggano una quantità di ricchezza superiore ai 160 milioni di statunitensi più poveri.

“Il problema non è legato solo alla giustizia economica, ma anche alla democrazia. È possibile mantenere una cultura e uno stato democratici quando la distribuzione della ricchezza non è affatto democratica? Si tratta di una minaccia molto seria”, sottolinea.

Oltre alle divisioni politiche, l’aumento della disuguaglianza può produrre anche risultati economici negativi.

Gli economisti di destra sostengono che la redistribuzione del reddito sia controproducente, ma il Fondo monetario internazionale sottolinea che le divisioni sociali possono destabilizzare la crescita e creare le condizioni per un improvviso rallentamento. Un’economia rischia di soffocare se milioni di persone non possono contribuirvi.

Come si può invertire la tendenza?

L’uguaglianza completa potrebbe essere un obiettivo irraggiungibile, e inoltre alcuni economisti pensano che una società del tutto equa potrebbe essere perfino indesiderabile perché cancellerebbe ogni diversità e dinamismo. Ma le domande cruciali sono altre: la disuguaglianza ha superato i limiti tollerabili? Come possiamo invertire la tendenza? Come possiamo evitare i fenomeni più estremi?

Il ragionamento che ha prevalso negli ultimi quarant’anni è che la crescita economica rappresenta l’antidoto più efficace contro la disuguaglianza. Se la torta è più grande, tutti avranno una fetta più grande. A tal proposito il politico laburista Peter Mandelson è citato spesso per una frase pronunciata negli anni novanta, quando ha dichiarato di “non essere contrario all’idea che alcune persone diventino scandalosamente ricche, purché paghino le tasse”.

La scelta del metodo per ridurre la disuguaglianza dipende molto dall’opinione che si ha del lavoro e del suo valore. Il lavoro duro merita un guadagno maggiore? I banchieri sono più importanti degli infermieri? Gli incentivi finanziari sono lo strumento migliore per massimizzare il potenziale delle persone?

Finora le armi principali nella lotta alla disuguaglianza sono state le tasse e la spesa pubblica. La tassazione progressiva e i trasferimenti di ricchezza sono importanti, ma non sono l’unico modo per combattere le diversità di reddito e di ricchezza.

Alcuni dati sembrano dimostrare l’efficacia della politica fiscale. Nel Regno Unito, senza tenere conto della redistribuzione attraverso le tasse e i servizi, il 20 per cento più ricco guadagna dodici volte di più rispetto al 20 per cento più povero. Una volta inseriti nell’equazione i trasferimenti di ricchezza e la pressione fiscale, però, il divario risulta più che dimezzato. Tuttavia Boris Johnson ha promesso grandi tagli alle tasse, quindi in futuro questo calcolo potrebbe risultare sensibilmente alterato.

Alcuni economisti e politici hanno sposato la causa del reddito di base per garantire una rete di sicurezza e scongiurare la povertà (anche se questo genere di progetto prevede costi molto elevati), mentre altri ritengono preferibile una spesa mirata in favore dei più bisognosi. C’è anche chi vorrebbe concentrarsi su un aumento della spesa per l’istruzione e i servizi.

L’economista francese Thomas Piketty, esperto mondiale nel campo della disuguaglianza, ha proposto una tassa globale sulla ricchezza, mentre l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha suggerito di aumentare le tasse di successione per evitare l’estrema concentrazione della ricchezza.

Ma questi tagli delle tasse sono temi politici molto delicati e spesso non si riescono ad applicare a causa di stratagemmi complessi che sfruttano un mondo sempre più globalizzato, dove il capitale può superare i confini e raggiungere i paradisi fiscali. Il solo parlare di tassa sulla ricchezza, tra l’altro, fa scattare i consueti allarmi sulla possibilità che un’economia possa perdere gli investimenti dei ricchi spingendoli a lasciare il paese.

Un’alternativa, sostenuta anche da Ed Miliband, è l’idea della “predistribuzione”, secondo cui un aumento della spesa per la sanità e l’istruzione può ridurre il persistere della disuguaglianza di reddito tra una generazione e l’altra, oltre ad alimentare a lungo termine i tassi di produttività, occupazione e reddito.

Alcuni economisti hanno suggerito che dare più potere democratico alle persone potrebbe scongiurare un aumento della disuguaglianza, insieme agli sforzi per inserire un numero maggiore di dipendenti nei consigli di amministrazione. Il partito laburista ha chiesto la creazione di fondi condivisi che assegnerebbero ai lavoratori il controllo fino al 10 per cento delle aziende quotate in borsa, garantendo loro una maggiore influenza nel processo decisionale e introiti derivati dai profitti.

Attualmente il governo britannico pretende dalle aziende un resoconto sulle differenze di reddito rispetto al genere, e sta valutando l’idea di una trasparenza in merito alla disuguaglianza di reddito su base etnica nella speranza che una maggiore attenzione nei confronti del problema spinga le imprese ad affrontarlo. Altri governi vanno addirittura oltre, obbligando le aziende a rendere pubblici tutti gli stipendi dei lavoratori.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

Leggi anche

I video del Guardian, in italiano

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it