Visto con il senno di poi, il quarto trimestre del 2007 potrebbe sembrare l’ultimo scorcio della felicità perduta. In Italia la disoccupazione era al 6 per cento e gli occupati toccavano il picco dei 25,4 milioni. Oggi gli occupati sono 25,2 milioni e la disoccupazione è al 10,7 per cento.

Dunque, a un decennio dall’inizio della crisi, dopo anni di fallimenti, ristrutturazioni e licenziamenti, i dati sono simili a quelli registrati prima del crollo del mercato immobiliare nel 2007 e prima della crisi del debito sovrano che ha travolto l’Europa nel 2011.

Ma allora perché non ce ne accorgiamo? Un breve viaggio nei numeri che riguardano il mondo del lavoro può aiutare a rispondere a questa domanda. E servire come piccola guida per una campagna elettorale nella quale i bicchieri mezzi pieni ci saranno riversati addosso giorno dopo giorno.

Occupati e ore di lavoro
Intanto cominciamo dicendo che l’Istat, il ministero del lavoro e l’Inps – dopo le polemiche e le approssimazioni dei primi tempi sull’applicazione del jobs act, quando venivano fuori numeri un po’ a casaccio – hanno creato un sistema coordinato per realizzare “informazioni armonizzate, complementari e coerenti”.

Questa tabella è contenuta nel primo rapporto annuale di questo nuovo sistema e mostra le differenze in termini percentuali tra i primi sei mesi del 2008 e i primi sei mesi del 2017. Il dato sul numero degli occupati (25,4 milioni nel primo semestre 2008) è il solo che si avvicini ai livelli di dieci anni fa (quando, nello stesso periodo di tempo, gli occupati erano 25 milioni).

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Per quanto riguarda il prodotto interno lordo (pil) c’è ancora molto da recuperare: nel primo semestre del 2008 era di 847 miliardi, mentre nei primi sei mesi del 2017 è stato di 795 miliardi.

Il grafico che segue, invece, mostra l’andamento del numero di occupati negli ultimi dieci anni. Secondo le stime di contabilità nazionale dell’Istat, nel terzo trimestre del 2017 gli occupati erano 25,2 milioni, una cifra che include anche i lavoratori irregolari, ossia quelli coinvolti nell’economia sommersa.

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Dalla curva di questo grafico ci si rende conto che siamo vicini ai livelli di dieci anni fa, quando le cose cominciavano a volgere al brutto. Da allora, la linea è crollata, è risalita lievemente e poi ha puntato di nuovo verso il basso, tra il 2011 e il 2013. Dal 2014 la risalita è costante, seguendo la ripresa dell’economia globale – e, dice il governo uscente, grazie all’introduzione degli incentivi alle assunzioni e al jobs act, a regime nel 2015.

Un altro dato interessante è quello che descrive l’andamento delle ore lavorate nel corso di dieci anni, che passano da 11,4 milioni nel terzo trimestre del 2008 a 10,9 milioni nel terzo trimestre di quest’anno.

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In questo caso, ci si accorge che siamo ancora sensibilmente al di sotto dei livelli registrati prima dell’inizio della crisi.

A cosa si deve questa differenza? Nel rapporto sul mercato del lavoro si fa notare che è la naturale conseguenza del ciclo economico: quando comincia una crisi, le imprese prima riducono le ore – tagliando gli straordinari, ricorrendo alla cassa integrazione e al part-time – e poi licenziano. Ma nell’ultima fase, quella della (piccola) risalita del pil l’occupazione è aumentata più delle ore lavorate. Come mai?

In gran parte questo fenomeno si deve all’aumento dei lavori part-time. Poco male, si potrebbe dire, se fosse il frutto di una libera scelta: invece i dati Istat, ribaditi dal presidente Alleva in una recente audizione alle camere, registrano una forte crescita del part-time involontario – ossia quello imposto dalle aziende e non scelto dai lavoratori – che riguarda il 19,1 per cento delle donne e il 6,5 per cento degli uomini.

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A incidere sulla riduzione delle ore complessive di lavoro è anche l’aumento di forme di impiego discontinue come quelle che riguardano i fattorini di Foodora, o i cassieri che lavorano solo la domenica, oppure gli operai assunti per periodi in cui la produzione si intensifica.

È una tendenza rilevante, tanto da spingere gli autori del rapporto a dedicare un capitolo ai “rapporti brevi”, ossia lavori saltuari e precari, che coinvolgono più di quattro milioni di persone e che usano ogni strumento contrattuale a disposizione, dai contratti a termine alle partite iva – in passato hanno usato anche i contratti a progetto (cocopro) e i voucher.

Siamo di fronte all’ascesa di una nuova categoria nell’universo già in crescita del lavoro a tempo determinato. Un universo che sembra essere la vera eredità della politica del lavoro della lesiglatura cominciata con Mario Monti e che si sta per concludere con la guida di Paolo Gentiloni, dopo i governi Letta e Renzi. Gli sgravi contributivi concessi negli anni passati hanno influenzato i numeri dei rapporti di lavoro permanente, ma finiti gli incentivi, i lavori a tempo determinato hanno registrato una crescita record.

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Un’altra causa della riduzione delle ore lavorate è da cercare nell’innovazione tecnologica. Oggi robot e automazione riducono le ore di lavoro necessarie per realizzare merci o servizi, e aumentano la produttività. In media, il fenomeno non riguarda la maggior parte dell’economia italiana, che anzi ha una produttività stagnante, ma influenza la manifattura industriale.

Secondo uno studio presentato dall’economista Sergio De Nardis, la produttività manifatturiera italiana è in crescita, in controtendenza rispetto al resto dell’economia: e questo per effetto di una “deindustrializzazione virtuosa”, come la definisce De Nardis. La crisi ha operato una selezione darwiniana, nella quale sono sopravvissute le imprese che hanno bisogno di minore occupazione per assicurare la stessa produzione di altre che per farlo hanno bisogno di più lavoratori.

Occupazione e disoccupazione
I numeri assoluti sull’occupazione vanno poi confrontati con quelli sulle forze di lavoro, categoria che comprende occupati e disoccupati e che è influenzata dalle dinamiche demografiche (nascite e morti, invecchiamento della popolazione, emigrazione e immigrazione), dall’aumento delle donne nel mercato del lavoro e dal divario tra nord e sud del paese.

Soffermandosi sulla variabile geografica, si può notare che l’Italia è ancora un paese spaccato a metà: il nord, con il 66,7 per cento di occupati di oggi contro il 66,5 del 2007, ha recuperato e superato i livelli di dieci anni fa, mentre il sud fatica a tornare alla situazione precedente alla crisi.

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Anche il genere è una variabile che influenza parecchio: rispetto al 2007, il tasso di occupazione degli uomini è inferiore di tre punti percentuali; mentre quello delle donne è superiore di 2,4.

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La riduzione del divario tra uomini e donne si deve a un piccolo aumento dell’occupazione femminile, e al fatto che gli uomini sono stati più colpiti dalla crisi. Per le donne – presenti soprattutto in settori meno vulnerabili come quello pubblico – si registra anche un prolungamento del tempo di occupazione, dovuto a leggi che hanno aumentato l’età della pensione.

Dunque a una notizia positiva – l’occupazione femminile ha tenuto, nonostante la grave recessione – si accompagnano note critiche: l’aumento dell’occupazione femminile non riguarda le donne giovani, si registra soprattutto nel centronord, ed è comunque inferiore agli anni precedenti. In ogni caso, il divario di genere nei tassi di occupazione è sceso a 18 punti percentuali: dal 1977 a oggi, ha fatto notare il presidente dell’Istat, si è ridotto di 7,4 punti, 3,6 dei quali proprio durante la recessione. Mentre è aumentato tra le generazioni, con la nuova occupazione tutta concentrata nelle fasce d’età più alte, per effetto della riforma dell’età pensionabile.

Ma perché, se l’occupazione è in ripresa, si parla ancora di “emergenza lavoro”? Il grafico che segue risponde alla domanda e chiarisce l’apparente paradosso: sale l’occupazione, ma sale anche la disoccupazione, perché ci sono più persone che cercano un impiego.

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Lo cercano soprattutto le donne, ma anche gli uomini che sono usciti dallo stato di inattività, cioè da quella condizione per cui non si ha un lavoro e non lo si cerca. Il tasso di attività, che era del 62,4 per cento nel 2007, ora è del 65,4 per cento. E qui arriviamo alla questione salariale: all’aumento di occupazione corrisponde anche un aumento delle retribuzioni, e dunque del benessere di chi vive di lavoro?

Più lavoro, meno salario
Per rispondere a questa domanda bisogna seguire l’andamento delle retribuzioni reali nello stesso periodo di tempo. Depurate dall’inflazione, le retribuzioni pro capite del 2016 sono più basse di 600 euro rispetto a quelle del 2007.

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Non solo non abbiamo fatto passi avanti, ma siamo andati indietro. Si noti bene che questi dati si riferiscono a tutta l’economia, ossia tengono conto sia del settore pubblico sia di quello privato.

Dunque abbiamo quasi lo stesso numero di occupati, ma si lavora meno e per meno soldi. Un fenomeno che non è solo italiano. L’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi) dedica un intero capitolo alla questione della bassa crescita dei salari. Le conclusioni puntano l’indice sulla crescita del part-time involontario, sulla precarietà del lavoro e – in alcuni casi – sull’aumento di produttività.

Gli economisti del Fmi, lo stesso centro di elaborazione e pensiero che per anni ha stimolato le politiche favorevoli alla riduzione del costo del lavoro per aumentare la competitività, analizzano ora questa dinamica con preoccupazione: non tanto per motivi distributivi (l’aumento delle disuguaglianze, il fatto che il lavoro non basta più a garantire l’uscita dalla povertà, le tensioni sociali), quanto per l’equilibrio complessivo del sistema economico.

Come spingere la crescita se i salari sono troppo bassi per comprare i beni prodotti? E come reggeranno i sistemi previdenziali e di welfare a un mondo di salari bassi? Ecco perché da qualche tempo dalle stesse sedi che spingevano per ridurre il costo del lavoro adesso viene l’indicazione opposta: aumentare i salari. Meglio tardi che mai.

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