Quasi due settimane dopo la scoperta che il coronavirus si stava diffondendo tra i suoi cittadini, la capacità degli Stati Uniti di effettuare test sulle persone per individuare la malattia era ancora pericolosamente limitata.
Dopo aver analizzato i dati locali provenienti da tutto il paese, è stato verificato che, il 9 marzo alle ore 16 della costa est, in tutti gli Stati Uniti solo 4.834 persone erano state sottoposte a test per rilevare il coronavirus.
La mancanza di test implica che sia quasi impossibile sapere quanti statunitensi sono stati infettati dal coronavirus e siano malati di Covid-19. Le analisi hanno tenuto conto degli annunci, su scala statale e locale, secondo i quali in 36 stati alla data del 9 marzo erano state infettate più di 570 persone. Tuttavia gli esperti sostengono che tale numero sia quasi certamente troppo basso per riflettere la piena diffusione del virus nel paese. Il numero di cittadini americani sottoposti a test, dicono, non è sufficiente a permettere alle autorità di dire quante persone siano malate.
Debolezza e lentezza strutturale
Dopo che i ricercatori hanno usato tecniche statistiche e genetiche per effettuare una stima delle effettive dimensioni dell’epidemia, hanno concluso che gli statunitensi infettati dall’inizio del mese di marzo potrebbero già essere migliaia. Il 9 marzo erano 26 i morti attribuiti al Covid-19 e dichiarati dai funzionari sanitari.
La lentezza con cui sono effettuati i test è diventata una debolezza strutturale per la risposta del paese alla diffusione del virus. A questo punto dell’epidemia, la Corea del Sud aveva già sottoposto a esami più di centomila persone, e i test procedevano a un ritmo di circa 15mila al giorno. Il Regno Unito, dove tre persone sono morte a causa del Covid-19, ha già effettuato analisi su oltre 24.900 persone.
Le stime per gli Stati Uniti sono elaborate grazie a una collaborazione in corso con il data scientist Jeffrey Hammerbacher e un’équipe di volontari, scelti per la loro esperienza nella raccolta dati, e dopo aver consultato i dati pubblicati da tutti e cinquanta gli stati del paese e il District of Columbia. Tuttavia, ogni stato usa un suo criterio per diffondere i dati: tutti comunicano i casi positivi, ma molti non comunicano quelli negativi o attualmente soggetti a verifica, due elementi che forniscono dati fondamentali di contesto sia per la progressione del virus sia per la risposta fornita dal governo.
Il nostro lavoro è necessario perché i centri per la prevenzione e il controllo delle malattie (Cdc) non forniscono con regolarità dati sulla reale portata dei test effettuati negli Stati Uniti. Sul suo sito web, quest’agenzia federale fornisce attualmente una cifra (l’8 marzo era di 1.707) che riflette solo il numero delle persone analizzate presso il laboratorio dei Cdc, quando in realtà sono i laboratori degli stati e quelli privati a effettuare il grosso dei test (i Cdc non hanno risposto subito a una richiesta di chiarimenti).
E quando i Cdc hanno fornito dati, l’hanno fatto in maniera lenta e incompleta.
Il 7 marzo Stephen Hann, commissario dell’Agenzia federale per gli alimenti e i medicinali (Fda), ha riferito ai mezzi d’informazione che 5.861 campioni – non persone – erano stati sottoposti al test del coronavirus entro la fine della settimana. Come regola generale servono all’incirca due campioni per ottenere risultati relativi a un singolo paziente, il che porterebbe il totale a circa 2.900 persone sottoposte ad analisi entro il 7 marzo.
Dalle verifiche fatte dall’Atlantic risulta che, nella giornata del 6 marzo, le persone che avevano effettuato il test erano 1.895.
Senza linee guida
La situazione dei test è così disastrosa che Marc Lipstich, professore di epidemiologia ad Harvard, ritiene che funzionari sanitari e giornalisti dovrebbero smettere di riferire il numero di casi positivi negli Stati Uniti parlando di “nuovi casi”. In realtà, ci ha scritto via email, “dovrebbero parlare di ‘casi di recente scoperta’, per eliminare l’impressione che il numero di casi riportati abbia una qualche rilevanza rispetto al numero effettivo”.
Il faticoso svolgimento dei test – e i rigidi criteri che i Cdc hanno imposto su di essi – hanno complicato il lavoro dei medici e diffuso l’ansia tra i cittadini, che si chiedono se i loro sintomi siano polmonite, influenza o qualcosa di peggio.
“Non so se abbiamo già qualcosa e se la stiamo trasmettendo ad altre persone”, ci ha raccontato una donna di 38 anni che vive vicino ad Austin, in Texas, e ci ha chiesto di rimanere anonima per motivi di privacy. Dopo essere tornata dall’Europa occidentale alla fine di gennaio, la donna e suo marito hanno contratto una strana malattia. Per settimane sono entrati e usciti da stati febbrili, con la temperatura corporea che continuava a salire e scendere. Si svegliavano tossendo nel cuore della notte, con le costole così doloranti da costringerli a vomitare. La donna è risultata due volte negativa all’influenza e anche allo streptococco. La diagnosi è stata di polmonite.
Durante il suo viaggio era stata spesso in mezzo a persone di varie nazionalità, ma nonostante avesse tutti i sintomi, una volta tornata non è stata sottoposta a test specifici. Quando ha chiamato l’ufficio di sanità pubblica di Austin per capire il da farsi, le è stato detto che a meno che non fosse ricoverata, o avesse visitato la Cina, non avrebbe potuto essere sottoposta al test per il Covid-19. La donna e il marito sono rimasti a casa da quando si sono ammalati, ma il loro figlio e la loro figlia, entrambi minori di cinque anni, sono andati a scuola fino a quando, la scorsa settimana, la bambina ha avuto la febbre.
Questo è solo uno dei tanti aspetti a proposito dei quali non esistono attualmente indicazioni chiare per le persone che pensano di poter essere contagiate, ma non possono effettuare analisi al riguardo.
Alcuni medici hanno espresso un’analoga frustrazione per l’impossibilità di effettuare esami sui loro pazienti. “Il dipartimento di sanità pubblica della Georgia ha sostanzialmente rinunciato a sottoporre a test i pazienti che non hanno bisogno di ricovero”, ci ha raccontato Josh Hargraves, un medico che lavora in un reparto di pronto soccorso in Georgia. “Il venerdì ci è stato detto ‘se il paziente non è reduce da viaggi all’estero e non ha bisogno di essere ricoverato in ospedale, non vale la pena che ci chiamate: non effettueremo alcun test”. Il sabato sera, quando Hargraves ha visitato quattro possibili malati di coronavirus, è riuscito a effettuare un test su uno di loro, ma solo dopo aver riempito complessi e inconsueti formulari. “Stiamo ancora limitando il ricorso ai test, e obbligando professionisti sanitari coscienziosi e competenti a fare salti mortali per ottenere dei test che loro sanno essere necessari per i pazienti”, ci ha spiegato Hargraves.
Sappiamo che il virus è tra noi e si sta diffondendo in molte aree. Politiche restrittive che limitano i test non hanno chiaramente più alcun senso. Esistono in questo paese persone malate che, secondo i loro medici, hanno bisogno dei test e che continuano a non poterli effettuare. Ogni giorno che passa senza adeguati esami, diminuisce la capacità del paese di rallentare l’epidemia.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito su The Atlantic. Leggi la versione originale.
© 2020. Tutti i diritti riservati. Distribuito da Tribune Content Agency.
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