All’inizio di luglio, mentre l’Egitto era alle prese con un’impennata dei contagi di covid-19 e con delicati negoziati con l’Etiopia per una nuova diga sul Nilo, un account di Instagram anonimo è diventato sempre più popolare.

Chiamato Assault police, il profilo ha cominciato a pubblicare accuse di molestie, violenze sessuali e stupri seriali rivolte contro Ahmad Bassam Zaki, uno studente dell’Università americana del Cairo di 21 anni, proveniente da una ricca famiglia della capitale. Sulla spinta delle prime testimonianze, ne sono emerse altre decine.

Le testimonianze contro il giovane hanno sconvolto l’opinione pubblica. Più di cento donne e almeno tre uomini sono usciti allo scoperto con accuse contro Zaki, che a settembre è stato incriminato per aver aggredito sessualmente tre minori e per aver costretto un’altra persona a un rapporto sessuale sotto ricatto.

“Ha aperto una grave ferita”, dice Azza Soliman, avvocata per i diritti umani e fondatrice del Centro per l’assistenza legale alle donne egiziane del Cairo, che rappresenta le vittime.

Anche se il Cairo è nota per le dilaganti molestie sessuali, la gravità delle accuse e il clamore sollevato dal caso Zaki hanno scosso un Egitto profondamente conservatore, innescando una presa di coscienza della società rispetto al modo in cui certe denunce sono gestite e a come sono trattate le vittime di violenza. Molti hanno chiesto riforme mirate a proteggere le donne e a incoraggiarle a parlare, con la garanzia che le loro accuse saranno prese sul serio.

Correnti opposte
Le correnti che spingono la società in direzioni opposte hanno animato un infuocato dibattito pubblico in cui si fondono i temi del #MeToo in stile occidentale con questioni più profonde riguardanti il pudore, la moralità e il ruolo della donna nella vita pubblica.

Il 3 luglio è entrato in azione il Consiglio nazionale delle donne (un istituto legato al governo), presentando alla procura una denuncia per conto delle presunte vittime di Zaki e incoraggiando le persone coinvolte a farsi avanti, promettendogli anonimato e sicurezza, oltre che sostegno legale e psicologico. Il 9 luglio il governo ha approvato un emendamento al codice penale per proteggere l’identità delle vittime di molestia, stupro e violenza nei processi, una vittoria per attivisti e avvocati che da anni chiedevano questa misura.

“Credo che lo stato si sia trovato costretto a fare qualcosa”, dice Mozn Hassan, attivista e fondatrice del centro Nazra per gli studi femministi, un’organizzazione per i diritti delle donne. “L’ondata era più grande di loro”.

“Dopo il 2011 le donne hanno preso più fermamente posizione e hanno cominciato a svincolarsi dallo stigma sociale”, dice Soliman.

Hassan e altri difensori dei diritti delle donne sostengono che ci sia stato un cambiamento netto nel modo in cui la società e le autorità affrontano i reati di violenza sessuale. Negli ultimi anni l’epidemia di molestie è finita sempre più sotto i riflettori, in particolare dopo la rivolta che nel 2011 rovesciò l’allora presidente Hosni Mubarak, durante la quale furono segnalati molti casi di violenze dentro e fuori piazza Tahrir, epicentro della rivoluzione.

“Dopo il 2011 le donne hanno preso più fermamente posizione e hanno cominciato a svincolarsi dallo stigma sociale”, dice Soliman. “Anche la legge ha fatto passi avanti”. Ma mentre lo stato in apparenza incoraggiava le donne a venire allo scoperto con una retorica progressista, la sua risposta ai singoli casi è stata di segno opposto.

Battuta d’arresto
Il caso di Zaki ha spinto molte donne a parlare apertamente di altri episodi che erano stati insabbiati, come il presunto stupro di gruppo avvenuto nel 2014 al Fairmont hotel del Cairo. Alla fine di luglio è stato creato un account Instagram anonimo, Gang rapists of Cairo, per denunciare i presunti responsabili dello stupro, provenienti da potenti e ricche famiglie della capitale. Secondo il profilo, sette uomini avrebbero drogato una donna a una festa per poi accompagnarla in una stanza del Fairmont hotel e stuprarla mentre era priva di sensi.

In una dichiarazione del 23 agosto il Consiglio nazionale delle donne ha invitato tutte le vittime e i testimoni coinvolti a sporgere denuncia, promettendo di sostenerli materialmente e legalmente e di mantenere la loro identità nel completo anonimato. Spinti da questo appello, tre uomini e una donna si sono presentati come testimoni. Ma dopo pochi giorni sono stati tutti arrestati con diverse accuse tra cui depravazione e immoralità. Secondo fonti legali sentite da Newlines, la procura avrebbe ordinato anche l’arresto di altre persone.

Parallelamente all’indagine sullo stupro, è stato aperto un altro fascicolo contro i testimoni. Secondo fonti vicine all’indagine, le accuse si basano su foto e video personali confiscati dai telefoni in seguito agli arresti o ottenuti attraverso i social network. I mezzi d’informazione legati ai servizi di sicurezza egiziani hanno lanciato una campagna diffamatoria contro i testimoni, pubblicando foto e video personali in cui compaiono in abiti provocanti, mentre ballano e bevono alle feste. Alcuni articoli hanno insinuato che il caso Fairmont fosse una “campagna vendicativa”.

Il 30 agosto la procura ha annunciato di aver fatto arrestare sei persone legate al caso, accusate di “violazione delle leggi sulla moralità” e “depravazione”. Tre di loro sono state temporaneamente rilasciate, le altre sono state trattenute per essere sottoposte a un test antidroga. Due sono state sottoposte anche a un esame fisico, non meglio specificato.

Il contrasto tra la retorica pubblica del governo e la decisione di perseguire i testimoni del caso Fairmont ha lasciato sconcertate le attiviste per i diritti delle donne, che parlano di una “forte battuta d’arresto” nella lotta per la giustizia delle vittime di violenza sessuale. La pagina Facebook del Consiglio è stata inondata di proteste, che accusano l’istituto di non proteggere quelle stesse donne che ha spinto a parlare.

“È cominciata con la solidarietà alle vittime, ma poi le testimoni sono state descritte come donne immorali, per intimidirle e screditarle”, afferma Mozn Hassan. “Lo stato deve appurare se è stato commesso un crimine, non elaborare un’opinione su quello che queste donne fanno delle proprie vite”.

Una fonte legale coinvolta nel caso, che ha chiesto di restare anonima, conferma che tra le accuse mosse contro una delle testimoni arrestate ci sono “incitamento al lesbismo, uso di droghe e pubblicazione di notizie false”. Gli avvocati di alcuni testimoni hanno declinato diverse richieste di commentare a causa della delicatezza del caso.

Le ragazze di TikTok
Le accuse di immoralità rivolte in particolare contro donne negli ultimi anni sono diventante sempre più diffuse in Egitto, in base a una controversa legge del 2018 sui reati informatici, che criminalizza gli atti che violano “i valori egiziani della famiglia”.

La legge non definisce questi valori, e la sua vaghezza e ampiezza hanno permesso di usarla in molti casi recenti. Tra questi, l’arresto negli ultimi mesi di alcune donne in quello che è diventato noto come “il caso delle ragazze di TikTok”, la piattaforma diffusa tra i giovani per condividere brevi video amatoriali.

Il 15 settembre un tribunale egiziano ha processato Hadeer Hady, accusata tra le altre cose di “aver violato i valori della famiglia egiziana e il pubblico decoro e aver incitato alla depravazione”. Hady è una delle almeno nove donne che devono rispondere di accuse a sfondo morale per le loro pubblicazioni sui social network. Sono tutte in carcere in attesa di giudizio.

Ashraf Farahat, avvocato e fondatore della campagna “Facciamo pulizia” su Facebook, il gruppo che ha presentato le denunce contro le cosiddette ragazze di TikTok, ha raccontato a Newlines che lui e altri quattro avvocati alle sue dipendenze hanno presentato almeno diciotto denunce alla polizia contro donne che “violano il decoro pubblico con video immorali” sui social network. Farahat e i suoi collaboratori setacciano i video su internet alla ricerca di “contenuti criminali” contrari a quelle che loro definiscono le tradizioni, le leggi e i valori dell’Egitto.

Farahat racconta di aver cominciato a intraprendere azioni legali contro le ragazze di TikTok per “timore che diventassero dei modelli per le minorenni che potrebbero essere tentate dalla fama e dal denaro”. Per lui anche una ragazza che indossa una maglia corta e aderente viola il decoro pubblico. “Questo genere di cose non si adattano alla nostra cultura”, afferma.

I valori della famiglia
Tra le persone prese di mira dallo stato su segnalazione di Farahat c’è l’influencer Haneen Hossam, un’universitaria di vent’anni arrestata dopo aver pubblicato un video in cui invitava le sue follower a usare Likee, un’altra piattaforma per la condivisione di video, per guadagnare un po’ di soldi.

Il 24 maggio un’altra celebrità del web, Mawada al Adham, è stata arrestata con l’accusa di “violare i valori della famiglia” per aver pubblicato video “indecenti” e per aver creato e gestito siti per questo scopo. Secondo le dichiarazioni rilasciate dal suo avvocato, le autorità avrebbero chiesto alla ragazza di sottoporsi a un “test di verginità”, ma lei avrebbe rifiutato.

Hossam e Al Adham sono state entrambe condannate a due anni di carcere e a una multa di 300mila lire egiziane ciascuna (poco più di 16mila euro). Gli avvocati hanno presentato appello contro le sentenze, ma le due donne rischiano fino a cinque anni di carcere se giudicate colpevoli in via definitiva. Tra le accuse contro Hossam c’è anche quella di traffico di esseri umani, perché avrebbe sfruttato le sue follower per un ritorno economico, un reato che prevede una pena massima di 25 anni di carcere.

Almeno altre sette donne sono state arrestate con accuse simili, sulla base di come hanno scelto di apparire sui social network. Nella maggior parte dei casi pubblicavano video in cui ballavano e cantavano canzoni famose. “Quali sono i ‘valori della società egiziana’?” si chiede Soliman, “E chi li stabilisce? Queste accuse sono incostituzionali”.

Il caso delle “ragazze di TikTok” ha suscitato reazioni diverse nell’opinione pubblica. Mentre in molti le hanno insultate in rete, altri hanno avviato delle campagne per sostenerle. Una petizione lanciata per chiederne l’immediata liberazione ha ottenuto più di 219mila firme.

La reazione evidenzia le divisioni della società egiziana su questioni legate alla sessualità e alla violenza sessuale, e la resistenza rispetto al cambiamento delle norme sociali. “È solo un gruppo di ragazzine che fanno video stupidi”, dice Soliman. “Abbiamo bisogno di leggi basate sulla costituzione, non degli standard morali di alcune persone”.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è stato pubblicato sulla rivista online Newlines Magazine.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it