Il finale di partita in Afghanistan lascia presagire sempre più distintamente una vittoria totale per i taliban, mentre la violenza aumenta nel contesto del ritiro definitivo delle truppe statunitensi.
I segnali che puntano in questa direzione sono macchiati di sangue. L’8 maggio un’autobomba piazzata a Kabul per colpire alcune studenti ha ucciso più di sessanta persone ferendone altre 147 in un’area occupata dagli sciiti hazara, una minoranza presa di mira dai gruppi sunniti radicali alleati dei taliban, tra cui il gruppo Stato islamico (Is).
Il 1 maggio, il giorno in cui le forze degli Stati Uniti e della Nato hanno cominciato a ritirarsi dal paese, i taliban hanno lanciato un attacco letale contro un’importante base dell’esercito nella provincia meridionale di Ghazni. Almeno 17 soldati hanno perso la vita e altre decine sono stati fatti prigionieri.
Nella provincia di Helmand, dove solo il giorno prima le forze statunitensi avevano ceduto il controllo di una base alle forze di sicurezza afgane, un attacco dei taliban a Lashkar Gah ha scatenato una battaglia furiosa che ha spinto centinaia di famiglie ad abbandonare le proprie case.
L’aumento della violenza solleva pesanti interrogativi sulla credibilità del processo di pace
Il ministero della difesa afgano ha confermato che le forze di sicurezza stanno rispondendo agli attacchi dei taliban in almeno sei province oltre a quella di Helmand.
L’aumento della violenza solleva pesanti interrogativi sulla credibilità del processo di pace multinazionale, in cui una “troika allargata” – composta da Stati Uniti, Cina e Russia insieme al Pakistan, ai taliban e al governo nazionale afgano – si è riunita recentemente a Doha, in Qatar, per annunciare una nuova “road map” verso la pace.
Nonostante la troika abbia invitato tutti i partiti afgani a “difendere i diritti di tutti gli afgani, comprese donne, uomini, bambini, vittime di guerra e minoranze”, non è chiaro cosa abbiano in mente i taliban e gli altri gruppi islamisti radicali.
Preoccupazioni ignorate
La nuova iniziativa dei taliban lascia pensare che l’organizzazione voglia prendere piede rapidamente in alcune aree dopo la partenza degli statunitensi, presentando la propria presenza come un dato di fatto alle forze nazionali, la cui potenza di fuoco è chiaramente inferiore.
Questo calcolo poggia sulla convinzione dei taliban che la resistenza sul campo di battaglia abbia costretto gli Stati Uniti a negoziare e a ritirarsi, e che non ci sia motivo di fermare la carneficina in un momento in cui la vittoria militare e ideologica completa è a portata di mano. Gli ultimi 2.500-3.500 soldati statunitensi lasceranno l’Afghanistan l’11 settembre, segnando la fine di una missione durata vent’anni.
Tuttavia molti afgani sentono che il processo di pace ha clamorosamente ignorato le loro preoccupazioni in merito all’aspirazione dei taliban a creare un emirato islamico, un sistema basato sulla sharia che cancellerebbe inevitabilmente alcune riforme liberali promosse dai governi laici appoggiati dagli Stati Uniti.
Anche la Cina teme che una maggiore instabilità in Afghanistan crei spazio al fondamentalismo islamico
I taliban hanno assicurato che dopo il ritiro statunitense rispetteranno le donne e permetteranno che abbiano un’istruzione, ma il ruolo femminile nella società resta fortemente limitato sotto la sharia professata dai taliban. Molti ritengono che la mancata risposta della troika a questi timori equivalga a un’accettazione del dominio dei taliban sul paese.
Il recente aumento della violenza ha evidenziato anche alcune crepe tra i paesi coinvolti nel processo di pace. Dopo l’attacco contro le studenti di Kabul, il ministero degli esteri cinese ha dichiarato di essere “sconvolto” e “profondamente rattristato” dall’aggressione, invitando gli Stati Uniti a ritirare le proprie truppe “in modo responsabile”.
“È importante sottolineare che l’annuncio improvviso degli Stati Uniti in merito a un ritiro completo delle loro forze dall’Afghanistan ha provocato una serie di attacchi violenti in tutto il paese, peggiorando la situazione della sicurezza e minacciando la pace e la stabilità oltre alla vita dei civili”, ha dichiarato domenica il portavoce Hua Chunying.
La Cina teme da tempo che una maggiore instabilità in Afghanistan possa creare ulteriore spazio per il fondamentalismo islamico, che a quel punto potrebbe sconfinare nella regione cinese (a maggioranza musulmana) dello Xinjiang, dove Pechino è accusata di persecuzione nei confronti della minoranza musulmana degli uiguri. La Cina ha cercato di coinvolgere i taliban nella sua iniziativa della nuova via della seta, ma al momento non è chiaro fino a che punto l’organizzazione ribelle sia concentrata sul futuro economico dell’Afghanistan.
Gli Stati Uniti e altri attori coinvolti nel processo di pace hanno fatto pressione per arrivare a un cessate il fuoco, ma i taliban hanno eluso queste richieste insistendo sul proprio loro a proseguire la jihad fino a quando non raggiungeranno i propri obiettivi, tra cui quello di cacciare le truppe degli Stati Uniti e della Nato dal paese.
Kabul sotto assedio
La settimana scorsa i taliban hanno messo in pratica questa posizione massimalista letteralmente nel giro di poche ore dall’inizio del ritiro delle truppe americane. Oltre agli attacchi diretti, gli estremisti hanno già cominciato ad allestire i loro posti di blocco in tutte le principali autostrade che portano alla capitale afgana.
Molte di queste postazioni sono state piazzate in luoghi precedentemente controllati dalle forze di sicurezza afgane. Indeboliti dal ritiro degli statunitensi, i soldati afgani hanno già abbandonato tante postazioni in tutto il paese nel timore di attacchi da parte dei taliban.
Il controllo sempre più stretto delle autostrade sta permettendo ai taliban di circondare la capitale afgana, che l’organizzazione ritiene occupata da forze straniere e da fantocci guidati dal presidente Ashraf Ghani, di cui vorrebbe neutralizzare il governo.
I check-point complicano il transito di forniture logistiche destinate alle forze afgane e hanno già costretto alcuni ufficiali a raggiungere la capitale in aereo, dato che le strade nazionali sono ormai considerate “territorio taliban”.
Le forze ribelli fanno sentire la loro presenza dentro e intorno a diversi capoluoghi regionali, probabilmente per testarne i livelli di sicurezza e per annunciare che presto intendono prenderne possesso.
Gli analisti ritengono che i taliban stiano anche mettendo alla prova gli Stati Uniti per capire se sono disposti a usare la loro potenza di fuoco aerea, come già fatto per difendere Kandahar e Lashkar Gah nell’autunno del 2020, in vista di un possibile attacco contro le città afgane nei prossimi mesi.
Questa nuova spinta dei taliban comporta alcuni rischi economici. Gli Stati Uniti e l’Unione europea, che forniscono centinaia di milioni di dollari di aiuti al governo di Kabul, potrebbero chiudere i cordoni della borsa e spingere il paese verso un improvviso baratro economico, complicando la missione dei jihadisti di imporre un governo estremista.
Al momento non è chiaro se nella mente dei taliban ci sia spazio per qualsiasi cosa che non sia la vittoria militare completa nei confronti degli Stati Uniti, a prescindere dai costi diplomatici ed economici.
C’è chi crede che, una volta consolidato un certo controllo sul territorio, i taliban cercheranno di coinvolgere persone esterne all’organizzazione per ottenere un accordo di pace “voluto dagli afgani e gestito dagli afgani” piuttosto che da attori esterni.
Ma per molti afgani una pace modellata all’ombra dei fucili dei taliban e della prospettiva di un ritorno della sharia non sarà molto diversa dall’ordine imposto vent’anni fa sotto la minaccia dei bombardieri americani B-52 e dalla presenza militare statunitense sul campo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è apparso sul sito di Asia Times.
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