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In Africa la pandemia ha fatto aumentare le gravidanze precoci

Harare, Zimbabwe, 13 novembre 2021. Tanaka Rwizi, 16 anni, ha lasciato la scuola dopo essere rimasta incinta. Vive nella baraccopoli di Mbare, in una stanza singola che condivide con lo zio disoccupato. (Tsvangirayi Mukwazhi, Ap/LaPresse)

Durante una pandemia una curva può nasconderne un’altra. Mentre tutti gli occhi sono puntati dal marzo 2020 sui picchi delle ondate di varianti del sars-cov-2, i picchi di gravidanze in età adolescenziale sono rimasti fuori dai radar. Con il passare dei mesi, però, le cifre del virus calano. In Uganda, l’ultimo paese ad aver riaperto le scuole l’11 gennaio, dopo 83 settimane di chiusura, il fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (Unfpa) ha registrato più di 650mila gravidanze precoci tra l’inizio del 2020 e il settembre 2021.

Per le giovani africane i lockdown e la chiusura delle classi in questi due anni di crisi sanitaria sono stati fatali. Come un meccanismo implacabile, il ritorno delle bambine a casa ha coinciso con un’esplosione di violenze, spesso sessuali e basate sul genere. Secondo la sudafricana Phumzile Mlambo-Ngcuka, direttrice dell’agenzia delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment delle donne (UN Women), questa è una “pandemia nell’ombra” che si traduce in gravidanze e matrimoni precoci.

L’aumento delle gravidanze nella fascia di età 12-18 anni è un indicatore chiaro: +60 per cento in Sudafrica, dove le scuole sono rimaste chiuse 60 settimane; +66 per cento in Zimbabwe (44 settimane); +40 per cento in Kenya (37 settimane). In Africa occidentale, dove le chiusure sono durate in media 14 settimane, i danni sono inferiori, con l’eccezione del Ghana (39 settimane di chiusura).

Percorso da combattente
Nell’ovest del continente, “nei primi cinque mesi era tutto disorganizzato”, spiega la senegalese Marie Ba, responsabile del coordinamento del partenariato di Ouagadougou, un’associazione che si occupa di pianificazione familiare presente in nove paesi dell’Africa occidentale: “Molto rapidamente però il Senegal, la Costa d’Avorio, il Mali e altri hanno allentato le regole e la vita ha ripreso il suo corso”. La cautela tuttavia è d’obbligo, anticipa, perché “un certo numero di gravidanze è rimasto invisibile, dato che sono stati chiusi anche gli ambulatori sanitari”.

Il blocco improvviso delle attività economiche, che ha spinto diversi strati sociali nella povertà estrema, ha avuto anche un impatto sulle condizioni di vita delle bambine. Secondo le Nazioni Unite, nel 2021 il numero di persone che vivono con meno di 1,67 euro al giorno nell’Africa subsahariana è aumentato di 37 milioni. Nella grande maggioranza dei casi si tratta di donne e bambine. Le famiglie che hanno potuto far tornare a scuola i figli hanno dato la priorità ai maschi. Secondo l’Unesco, nelle scuole primarie e secondarie continuano a mancare undici milioni di bambine e ragazze, tra le quali un milione di adolescenti che rischiano di andare incontro a gravidanze precoci. Al livello mondiale le complicazioni legate alle gravidanze e al parto sono la prima causa di morte tra i 12 e i 19 anni e ogni anno 3,7 milioni di aborti non eseguiti in condizioni di sicurezza provocano decessi o mutilazioni.

“Devono cambiare le norme sociali se vogliamo che le bambine non siano più eterne emarginate”

Le giovani madri non tornano quasi mai in classe, ma le difficoltà cominciano molto prima dell’arrivo del bambino. “Le società africane hanno ancora molte difficoltà ad accettare le ragazzine incinte”, prosegue Marie Ba. “Sono messe alla berlina e, a volte, è lo stesso sistema scolastico a respingerle”. Anche quando gli stati prendono provvedimenti per cambiare le mentalità – come nel caso della Costa d’Avorio, che dal 2013 si è data l’obiettivo di avere “zero gravidanze a scuola” – molte ragazzine abbandonano la scuola per paura di essere stigmatizzate. E nove mesi di gravidanza equivalgono a un intero anno scolastico perso.

Dopo il parto poi, il reinserimento a scuola è un percorso da combattente. Questa possibilità è vietata esplicitamente in Tanzania (anche se la presidente ha promesso di cancellare il divieto) e in Togo, ma molti altri paesi, dove non ci sono leggi che lo vietano, sono comunque refrattari perché riducono il problema a una questione di moralità. D’altro canto, anche stati che sono favorevoli potrebbero non avere i mezzi per accompagnare il rientro in classe delle giovani madri.

Davanti all’enorme portata del problema si sono mobilitate le associazioni e le ong locali e internazionali. La coalizione mondiale per l’educazione dell’Unesco ha lanciato il programma Uguaglianza di genere per convincere gli stati a rafforzare la scolarizzazione di bambine e ragazze, comprese quelle incinte. Questo problema è stato al centro del terzo vertice sulle bambine africane, che si è svolto a Niamey alla metà del novembre 2021 su iniziativa dell’Unione africana e del Comitato africano di esperti sui diritti e il benessere dei bambini.

Rimettere in piedi la scuola e la salute
Nel dicembre 2020 il Partenariato mondiale per l’educazione (Gpe), importante supporto dei paesi in via di sviluppo, ha lanciato l’Acceleratore dell’educazione delle bambine, un meccanismo di finanziamento dotato di 250 milioni di dollari (224 milioni di euro) per aiutare i governi a riportare a scuola queste ragazzine. Questa somma si aggiunge ai 500 milioni di dollari già mobilitati per consentire agli stati di far riprendere sistemi scolastici demoliti dal covid-19. Si tratta di fondi speciali che saranno sbloccati in base a dei “risultati”, precisa la britannica Jo Bourne, direttrice dei programmi del Gpe: “Bisogna proteggere i bilanci dei paesi e convincerli a investire di più, ma il problema è più profondo. Devono cambiare le norme sociali se vogliamo che le bambine non siano più le eterne emarginate”.

“Se vogliamo un cambiamento nel lungo periodo, le politiche pubbliche devono prendere in considerazione le questioni di genere”, commenta il malgascio Haingo Rabearimonjy, direttore dei programmi per l’Africa della Federazione internazionale per la pianificazione familiare (Ippf). La pandemia l’ha dimostrato. “Questi due anni ci hanno spinti a pensare a una risposta intersettoriale”, prosegue. “E adesso ne vediamo l’evoluzione: i ministeri dell’educazione, della salute, dei diritti delle donne, della pianificazione familiare si mettono a lavorare assieme”.

Sul campo, la crisi sanitaria ha anche obbligato i soggetti preposti all’educazione alla salute sessuale a reinventarsi. “Da quando siamo riusciti a ritrovare una certa flessibilità, abbiamo usato i social network, applicazioni, piattaforme online e offline, ambulatori mobili, visite porta a porta per riuscire a raggiungere le giovani”, testimonia Rabearimonjy. Una capacità di adattamento che ha consentito di compiere dei veri progressi nel campo della contraccezione.

“Tutti i paesi dell’Africa occidentale hanno raggiunto i loro obiettivi”, ci tiene a ricordare Marie Ba. “Anche se dare informazioni alle bambine a scuola è ancora un tabù, negli ultimi dieci anni l’ambiente si è molto evoluto. Oggi è facile parlare di pianificazione familiare per i leader politici che osservano con più attenzione le conseguenze economiche di una maggiore autonomia delle donne”.

E dello sviluppo che ne consegue. Nel 2018 la Banca mondiale ha stimato che la perdita di ricchezza per i dodici paesi del continente con indici più elevati di matrimoni precoci ammontasse a 55,4 miliardi di euro. “Un’educazione persa per ciascuna adolescente è una catastrofe”, sintetizza Rabearimonjy. “Per lei, per suo figlio e per il suo paese”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul quotidiano francese Le Monde.

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