Quelle di Rio de Janeiro sono le prime Olimpiadi che ho seguito come giornalista. Ma, come succede per buona parte degli abitanti del pianeta, hanno svolto un ruolo importante durante la mia crescita.
Strabuzzavo gli occhi davanti agli exploit degli atleti più veloci e forti del mondo. Alla fine degli anni settanta e nei primi ottanta i ragazzi idolatravano il decatleta Daley Thompson. Il velocista statunitense Carl Lewis suscitava in noi meraviglia. La piccola Nadia Comaneci, quella capace di ottenere tutti dieci, era l’unica cosa che conoscessimo della Romania, figuriamoci della ginnastica. Eravamo innamorati.
Sono ricordi che ti formano come essere umano. Giocavamo alle olimpiadi nei campi sportivi scolastici. Con le nostre ginocchia magroline e in pantaloncini larghi uscivamo sotto la pioggia inglese convinti di correre come Sebastian Coe e Steve Ovett. Il lanciatore del peso Geoff Capes era il simbolo della forza che tutti noi avremmo voluto avere.
E, a un livello molto più profondo, le Olimpiadi catturavano la nostra immaginazione perché rappresentavano l’idea di diventare il migliore, di un mondo che si univa in nome della pace e dello sport che si dimostrava più forte del denaro. In altre parole, quel genere di cose che nel 2016 – un altro anno di scandali di doping, di guerra e terrorismo – sembrano più che altro una favola.
O forse no…
Grottesca parata
Le cose apparivano sicuramente a quel modo all’inizio di agosto, mentre aspettavo insieme ai carioca (il soprannome degli abitanti di Rio de Janeiro) l’arrivo in città della torcia olimpica.
Devo ammettere che mi sentivo già abbastanza provato.
Il passaggio della torcia non è stato inventato dagli antichi greci, come alle autorità olimpiche piacerebbe farci credere, ma dai nazisti, per i giochi di Berlino del 1936. Erano tre mesi che questa complessa e costosa cerimonia stava attraversando l’intero paese, incontrando regolarmente problemi di vario tipo.
Come prima cosa non è apparsa la torcia ma un enorme camion della Coca-Cola
Alcuni corridori erano caduti. Le guardie che accompagnavano i corridori avevano litigato tra loro. Alcuni manifestanti violenti avevano fronteggiato poliziotti altrettanto violenti. Un raro esemplare di giaguaro in cattività era stato portato a salutare la torcia, salvo poi essere ucciso mentre cercava di scappare. Varie persone avevano cercato di buttare acqua su una fiamma che avrebbe dovuto essere sacra.
Ma niente avrebbe potuto prepararmi alla grottesca parata che alla fine si è riversata in quella strada di Rio.
La prima cosa ad apparire non è stata la torcia, bensì un enorme camion della Coca-Cola carico di belle ragazze che ballavano con musica ad alto volume e distribuivano lattine alla folla. E la seconda? Un altro camion della bevanda gassata. La terza è stata un camion che reclamizzava automobili. La quarta era un altro camion con musica ad alto volume e alcuni giovani e carini che ballavano, in questo caso a beneficio di una banca brasiliana.
Poi c’è stato un esercito di poliziotti in assetto antisommossa, altri dall’aria ancora più spaventosa in sella alle motociclette e dotati di armi automatiche, e altri dall’aria inquietante, con le canne dei loro fucili automatici che spuntavano dal finestrino delle auto. Solo a quel punto, quasi invisibile nel crescente caos di sponsor, uomini armati e carioca che cercavano di ottenere delle lattine gratuite, è arrivata la torcia. Stavolta nessuno ha cercato di spegnerla, ma un uomo che si era scritto sul sedere uno slogan che invitava il presidente Michel Temer a dimettersi, si è effettivamente calato i pantaloni.
Nel caos di denaro, forza bruta, proteste ed effimero entusiasmo, mi sono accorto che quello a cui avevo appena assistito era un condensato dell’intera esperienza dei giochi brasiliani.
Puniti dagli dèi
Non è così che sarebbero dovute andare le cose.
Quando, nel 2009, Rio ha ottenuto il diritto di ospitare i giochi, il paese era in pieno boom. Il presidente Luiz Inácio “Lula” da Silva godeva di un successo e una popolarità tali che in molti immaginavano che il Brasile sarebbe entrato nel novero dei potenti paesi sviluppati. I giochi olimpici avrebbero rappresentato una festa d’investitura.
Visto che gli dèi greci hanno sempre punito la hybris, forse sono loro i responsabili di quel che è successo in seguito.
I prezzi delle materie prime sono crollati e il miracolo economico brasiliano è imploso. In seguito è stata scoperta una gigantesca rete di corruzione che ha macchiato la reputazione di Lula (e lo ha fatto finire nel mirino della giustizia). Il successore designato di Lula, Dilma Rousseff, si è trasformata in una politica largamente impopolare che tra poco dovrà affrontare un processo d’impeachment. Il suo sostituto, Temer, non è molto più amato.
È straordinario che alla fine Lula e Rousseff si siano rifiutati di partecipare alla cerimonia di apertura, al contrario di Temer, che si è presentato ma è stato sonoramente fischiato. E quando si arriverà all’ultima fase dell’impeachment, il sentimento prevalente in questo paese di 204 milioni di abitanti nei confronti dell’uscita di scena di Rousseff sarà l’indifferenza.
Lo spettacolo deve continuare
Ma i giochi olimpici, come la staffetta della torcia olimpica, non possono essere fermati.
Lasciamo stare il fatto che il governo dello stato di Rio è rimasto al verde alcune settimane prima dei giochi, il che ha reso necessario un salvataggio economico federale. Lasciamo stare che il personale di polizia, degli ospedali e delle scuole pubbliche è rimasto per mesi senza sapere se avrebbe ricevuto lo stipendio. Questa festa di due settimane per mezzo milione di turisti, 10.500 atleti e circa 25mila persone al servizio dei mezzi d’informazione doveva continuare.
Limousine circondate da battistrada in moto rombavano giorno e notte nelle strade intasate di Copacabana e Barra. I ricchi e famosi hanno tenuto feste in lussuose residenze olimpiche nazionali spesso a pochi metri dalla miseria più nera.
Non stupisce che molti carioca abbiano avuto un solo desiderio prima che cominciassero le Olimpiadi: che finissero il prima possibile. Durante la cerimonia d’apertura al Maracanà, ero seduto a un isolato di distanza dallo stadio nel tipico bar di quartiere. Trasmettevano la cerimonia in tv, naturalmente, ma non si erano neanche preoccupati di alzare il volume.
Dentro il Maracanà era in mostra il Brasile al suo meglio: creativo, bello e culturalmente ricco. Fuori, non restavano altro che le preoccupazioni sulle violenze con armi da fuoco, la mancanza di medici e la disoccupazione dei giovani.
“Non m’importa nulla della cerimonia”, ha esclamato Patricia Palma, un’impiegata di 43 anni, che stava bevendo una birra con alcuni amici. “Fanno vedere sempre le stesse cose. Non è altro che un sacco di denaro che viene tolto dalle nostre tasche”.
Ad alcuni chilometri da lì, nelle brulicanti favela di Complexo do Alemao e Mare, il senso d’alienazione era perfino maggiore. “Le olimpiadi sono per i ricchi”, ha detto Marcos Enrique Nascimento, che guida una moto taxi. “Nessuno viene qui a chiederci se qualcuno della favela vuole vedere i giochi”.
Spirito olimpico
Eppure lo sport possiede uno strano potere. Una volta conclusi i preliminari, quando gli atleti hanno cominciato a correre, saltare, battersi, navigare e colpire il pallone, l’umore è cambiato.
Il giorno dopo la cerimonia del Maracanà, ho visitato una nuova area pedonale (una delle più apprezzate eredità lasciate alla città) nel vecchio porto e mi sono imbattuto in una folla eccitata. I brasiliani, a quanto pareva, si erano improvvisamente innamorati dei giochi. La spiegazione che mi hanno dato molte persone era di una semplicità disarmante: nient’altro che il sollievo che la cerimonia d’apertura fosse andata bene. “Un sacco di persone, e io in particolare, temevano un disastro”, mi ha spiegato l’architetta Fabiana Amaral. “Adesso ci sentiamo fieri”.
I brasiliani hanno imparato ad amare i giochi. E lo stesso, con riluttanza, ho fatto io.
Certo, lo sport riesce facilmente a distrarci. La perfezione di Usain Bolt, Simone Biles o Michael Phelps è un modo fantastico per dimenticare momentaneamente le imperfezioni del mondo. Osservando questi supereroi della vita reale nel Brasile tropicale rivivevo l’eccitazione provata tanti anni fa nella cupa Inghilterra.
Ma c’era dell’altro. Man mano che i brasiliani s’innamoravano, diffondevano una gioia e un’energia contagiose negli stadi. Anche l’incredibile abitudine dei brasiliani di ricoprire di rumorosi buu gli atleti, spesso per motivi comicamente imprevedibili, ha suscitato più curiosità che critiche.
E i campioni li hanno ripagati.
Erano in pochi a non avere gli occhi lucidi quando Rafaela Silva, la judoka brasiliana vincitrice di una medaglia d’oro, ha raccontato come una bambina della pericolosa favela Cidade de Deus sia riuscita non solo a sopravvivere, ma anche a smentire tutte le previsioni – e i suoi detrattori razzisti – e diventare una vincente. E la sua decisione di rivelare, poco dopo, la sua omosessualità non ha fatto altro che sottolinearne il coraggio.
Poi è successo qualcosa di ancor più incredibile in questo paese di maschilisti e fanatici del calcio: la nazionale femminile di calcio si è attirata un grosso numero di ammiratori, mettendo in ombra i loro celebrati, ma da troppo tempo deludenti, colleghi.
E ho imparato che non c’è neanche bisogno di un vincitore per capire cosa sia lo spirito olimpico.
Ho conosciuto i primi piloti di catamarano olimpici della storia della Tunisia, Hedi Gharbi e Riheb Hammami. Sono arrivati ultimi in ogni competizione, ma sprizzavano orgoglio da tutti i pori “per il semplice fatto di essere qui e ricevere una simile accoglienza”, come spiegava Gharbi.
Poi ci sono stati la statunitense Abbey D’Agostino e la neozelandese Nikki Hamblin, entrambe cadute durante la gara dei cinquemila metri. Quando Hamblin è caduta a terra sgomenta, D’Agostino si è chinata verso di lei, incoraggiandola a rialzarsi. “Dobbiamo arrivare alla fine”. Quando le due hanno ricominciato a correre, la statunitense zoppicava. Ed è stata Hamblin, stavolta, a incoraggiare la sua avversaria. Non hanno vinto la gara ma hanno ottenuto la medaglia d’oro della sportività.
I sogni che diventano realtà
Il mio momento preferito è stato però un piccolo incidente, avvenuto molto lontano dai riflettori.
Majlinda Kelmendi aveva appena battuto l’italiana Odette Giuffrida nel judo. La prestazione era di per sé importante, poiché il suo oro era la prima medaglia della storia del Kosovo. Ma quel che mi ha colpito è venuto dopo.
Mentre singhiozzava in preda all’emozione, Kelmendi aveva l’aria così stravolta che sembrava incapace di reggersi in piedi. Il peso della gioia, della liberazione e delle attese l’avevano messa in ginocchio. E chi è stato ad abbracciare Kelmendi? Chi ha alzato il braccio della kosovara davanti alla folla in segno di vittoria? Proprio lei, la sconfitta Giuffrida.
I sogni olimpici della mia infanzia non erano quindi delle favole, in fin dei conti.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog, giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.
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