Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2021 nel numero 1415 di Internazionale.

Premetto che con la quarta figlia non ho fatto nessun passo falso, almeno stando a quello che ho letto nei manuali per neogenitori. Quando era ancora nella pancia della mamma parlavo con Juli – si chiama così – e le cantavo delle canzoncine. Quand’è nata, la portavo spesso in giro avvolta nella fascia portabebè e la imboccavo pazientemente con pappe biologiche. Quando eravamo in giro insieme, io e Juli sembravamo usciti da una di quelle pubblicità delle assicurazioni, piene di giovani papà che s’informano su un mutuo. E quando prendevamo l’autobus, le signore anziane si alzavano commosse per cederci il posto. E io mi sentivo decisamente soddisfatto.

Poi Juli ha compiuto tre anni e io ho ricevuto il benservito: “Con papà no, non voglio!”. All’inizio mia moglie e io siamo stati inteneriti dalle sue piccole dimostrazioni di rabbia. Ma la sua rabbia cresceva sempre di più. “Non voglio che papà mi metta a letto”, “Voglio che mi porti mamma”, “Bleah, questo sicuramente l’ha cucinato papà”. Quando andavo a prenderla all’asilo non voleva venire via con me, mentre i bambini intorno si gettavano entusiasti tra le braccia dei loro papà.

Poco alla volta, mia moglie ha cominciato a non poterne più di fare tutto da sola. E intanto io accumulavo frustrazione. Quando Juli se ne usciva con cose come “mamma è meglio di papà!”, per me era quasi impossibile evitare di fare una faccia corrucciata e rabbiosa. Mia moglie mi avvertiva: “La bambina sente il tuo rifiuto”. Ma questo non faceva che aumentare la mia delusione. Non solo venivo trattato a pesci in faccia, ma adesso era anche colpa mia? Non avrei voluto sentirmi ferito, eppure era così. Quasi vent’anni da papà, e poi questa doccia fredda.

La mia carriera di padre è cominciata piuttosto presto: avevo 25 anni quando è nata Luna, la mia prima figlia, che ora ha 21 anni. La seconda, che oggi ha 15 anni, si chiama Lotta; poi c’è Greta, che ne ha 14. Quando è nata Juli, avevo 39 anni. Chi meglio di me poteva sapere come fare il padre? Ero un professionista nel dare affetto e sostegno, eppure mia figlia non mi poteva vedere.

Sono un buon padre? Ogni uomo che ha dei figli a questa domanda vorrebbe poter rispondere sì. Ma io nutrivo forti dubbi su me stesso. Come si fa a capire se si è un buon padre, se non basandosi sull’apprezzamento dei propri figli? E poi questi sono tempi duri per un padre. Vogliamo fare le cose per bene, meglio dei padri di una volta, che si comportavano da padroni del mondo. Chi crede più che siano i padri ad avere il controllo, quando il patriarcato, con gli uomini che prendevano ogni decisione e pensavano di sapere tutto e di poter risolvere tutto, non ha fatto altro che portare il pianeta sull’orlo della catastrofe? Su siti, podcast e riviste dedicate ai papà proliferano immagini di paternità alternativa. È un flusso continuo di superpapà che fanno sembrare il lavoro del genitore uno sport decisamente divertente. Mentre si scatenano all’aria aperta con i figli, uomini dalla barba incolta annunciano: “Ecco dieci trucchetti per essere un buon padre (uno è far sentire tuo figlio un supereroe)”. C’è anche chi pensa che tutto sommato i padri siano piuttosto superflui e che le madri se la cavino benissimo da sole. Per esempio la femminista Hanna Rosin, che ha proclamato La fine del maschio e l’ascesa delle donne, come recita il titolo del suo libro.

Insomma, tra aspirazioni, attribuzioni e giudizi – anche negativi – cerchiamo di gestire la paternità in modo più o meno consapevole. Conosco padri che si limitano a pianificare le gite di famiglia per il fine settimana e padri che si fanno interamente carico della cura dei figli – dalla cucina ai compiti – chiedendosi se non ci sia anche qualcos’altro che potrebbero fare per loro. Personalmente, credo di collocarmi da qualche parte nel mezzo tra i due estremi. A volte capita che chi sta per diventare padre mi chieda un consiglio dall’alto della mia esperienza, e in quei momenti mi accorgo di quanto mi riesca incredibilmente difficile darne. Certo, devo pur aver imparato qualcosa. Ma cosa?

Capelli e manicure, 2020. (Zachary P. Stephens)

Per scoprirlo decido di fare un viaggio nel tempo, da una figlia all’altra, per capire com’è cambiato il mio modo di essere genitore, e come, più o meno nello stesso arco di tempo, sono cambiate le aspettative nei confronti dei papà in generale. Strada facendo capisco perché in passato i padri erano considerati sacri, perché chi si occupa dei figli al termine della propria giornata di lavoro non è così male come crediamo e perché a volte basta un po’ di saliva per capire se un uomo è contento di fare il papà.

Per prima cosa parlo con Alois Herlth, un sociologo che forse saprà dirmi cosa fa di un uomo un buon padre. Herlth ha cominciato a studiare l’argomento negli anni novanta all’università di Bielefeld e quello che ha scoperto è valido ancora oggi. Mi spiega quali fattori è riuscito a mettere a fuoco insieme ai suoi collaboratori: senso della famiglia, stimolo delle risorse del bambino ed empatia. Sembrano concetti un po’ ostici, ma significano semplicemente che un buon padre dovrebbe interessarsi alla famiglia e trarre gioia dal rapporto con i figli. È importante anche la soddisfazione della compagna o del compagno. Secondo Herlth, “un buon padre è aperto e sensibile ai bisogni emotivi”.

Spesso i figli non ti aiutano a trarre gioia dal rapporto con loro

Dopo la conversazione con il sociologo, non so bene che pesci prendere. Certo, piacerebbe a tutti essere la persona che descrive lui. Ma spesso i figli non ti aiutano a trarre gioia dal rapporto con loro. E coltivare una relazione di coppia soddisfacente non è facile neanche per chi figli non ne ha. Se aggiungi le ore di sonno perse e le urla dei bambini, la situazione non può migliorare. Come fare allora? Herlth non me l’ha detto. Per quanto riguarda il mio percorso personale, so bene che ho ancora molta strada da fare.

Grossi fiocchi di neve

Il mio viaggio è cominciato in una notte di dicembre di 21 anni fa, quando uscii dall’ospedale di Schwabing barcollando come un sonnambulo: qualche ora prima era venuta al mondo mia figlia Luna. Cadevano grossi fiocchi di neve e stringevo in mano una busta di plastica con dentro la placenta. Secondo l’ostetrica l’avrei dovuta sotterrare in giardino per piantarci sopra un albero. In Baviera si usa così. Ma io non avevo un giardino e poi ero sconvolto da quello che era appena successo: quella nascita mi sembrava una cosa enorme. Avevo ancora la sensazione di tenere quel corpicino tra le mie braccia. “È una cosa importante”, pensavo. “Non devi combinare casini”. Dopo neanche tre anni, però, la relazione con la mia compagna naufragava: eravamo molto diversi, forse entrambi troppo giovani, e certamente i figli non erano in programma. Ma avevo anche combinato un bel po’ di casini. Non conoscevo altri padri della mia età e non avevo nessuno con cui parlare. Perciò feci quello che credevo bisognasse fare: niente. Pensavo di dover innanzitutto portare a casa uno stipendio per la mia giovane famiglia, per questo ci eravamo trasferiti ad Amburgo. Ogni mattina accompagnavo Luna al nido, ma per il resto mi limitavo a fare il papà nei fine settimana, quando ero sempre stanchissimo. Il pensiero che anche la mia compagna dell’epoca potesse aver avuto una settimana impegnativa non mi passava neanche per l’anticamera del cervello. In fondo, pensavo, lei deve solo occuparsi della bambina. I litigi aumentavano e io passavo sempre più tempo in ufficio. Provammo a fare terapia di coppia e ci servì più che altro a lasciarci. Quando Luna e sua madre tornarono in Baviera, mia figlia aveva due anni. Io rimasi ad Amburgo. Il mondo che speravo di offrire a mia figlia era già andato in mille pezzi e ci avrei messo molto tempo a rimetterli insieme.

Successivamente la madre di Luna mi ha raccontato che all’epoca la sua assistente sociale di riferimento si era offerta di aiutarla a farmi togliere l’affidamento congiunto. Se ci avesse provato ci sarebbe riuscita sicuramente, perché allora era opinione comune che quelli come me fossero buoni al massimo a pagare gli alimenti. Se una coppia non era sposata, in caso di separazione i padri potevano ottenere la custodia dei figli solo con il consenso della madre. L’idea era quella di tutelare le donne. Ma fu proprio in quel periodo che il ruolo paterno intraprese una timida trasformazione. Io, però, ancora non me n’ero accorto.

In campo scientifico ebbe grande risonanza una ricerca intitolata “Nebraska”, realizzata dai sociologi statunitensi Alan Booth e Paul Amato. Ne emergeva l’importanza della figura paterna: secondo lo studio, infatti, il rapporto padre-figlio o figlia incide più di quello madre-figlio o figlia sulla soddisfazione di vita, sulle difficoltà psicologiche successive e sul livello d’istruzione dei figli. All’epoca anche in Germania cominciò un processo di revisione. Il pedagogista greco-tedesco Wassilios Fthenakis e la sua collega Beate Minsel dedicarono diversi studi, commissionati dal governo tedesco, alle trasformazioni subite dall’immagine paterna. Secondo le loro ricerche, all’inizio degli anni duemila solo un terzo dei padri riteneva che il suo compito principale fosse quello di portare a casa lo stipendio; la grande maggioranza desiderava assumersi le sue responsabilità nell’educazione dei figli.

Anch’io facevo del mio meglio durante i fine settimana e le vacanze. Ma ovviamente non bastava. Ricordo che mia figlia era spesso arrabbiata con me. “Casa tua è sporca e puzza!”, protestava alla vista del mio appartamento da scapolo. Ogni volta i nostri incontri finivano con addii tristi e una sensazione di vuoto nel cuore. Le cose hanno cominciato ad andare meglio solo quando, a 16 anni, Luna si è trasferita in un appartamento in condivisione vicino a casa mia. Fino a quel momento gli amici mi avevano spesso rassicurato: dicevano che ero un buon padre. Ma io sentivo di aver fallito.

Perché siamo stati convinti così a lungo che i papà fossero superflui? Eppure molto nella società occidentale si basa su una figura di padre concepita come molto potente. Le preghiere cristiane sono rivolte al “Padre nostro”, il papa è il “santo padre” e a noi tocca difendere la “patria”. Insomma, sembrerebbe che per la cultura occidentale il padre costituisca un punto fermo. Ci sono ragioni di ordine storico-culturale per questo. Sembra che le prime società patriarcali siano sorte quando gli esseri umani diventarono sedentari e cominciarono a coltivare la terra. Se un clan aveva tanti figli maschi, era in grado di difendersi e assumeva una posizione dominante. Inoltre attirava un maggior numero di donne, alle quali era in grado di offrire sicurezza. Una delle teorie che spiegano l’importanza della figura paterna in tutte le grandi civiltà vuole che, mentre il legame diretto tra madre e figli è evidente, quello tra padri e figli ha sempre avuto bisogno di essere costruito culturalmente. Per potersi affermare, una società doveva crearsi una sua narrazione su come e perché era necessario che i padri si occupassero dei figli, e le serviva premiare questo tipo di comportamenti.

Riparare l’auto, 2020. (Zachary P. Stephens)

Nel suo libro Der phantasierte Vater (La fantasia del padre) lo psicologo Jürgen Grieser scrive che “non è la natura, ma la cultura ad avvicinare padre e figlio”. Già ai tempi dell’impero romano il padre non era solo capofamiglia, ma anche sacerdote, adorato come una creatura sacra. Anche in tutte le culture europee successive il padre godeva di uno status privilegiato. Fino all’ottocento inoltrato a capo della famiglia allargata c’era il patriarca, che la rappresentava all’esterno e prendeva le decisioni sull’educazione dei figli. Poi l’industrializzazione portò la divisione del lavoro. Di giorno gli uomini erano fuori casa e non potevano più occuparsi dei figli, mentre alle madri toccavano tutte le incombenze domestiche. Nel primo codice civile tedesco, entrato in vigore il 1 gennaio 1900, si stabiliva che il sostentamento della famiglia spettava al padre, mentre la madre aveva il dovere di occuparsi della casa e dei figli. Il legame affettivo quindi era affar suo: dal padre la società si aspettava che reprimesse sentimenti, paure e altre debolezze. Un uomo che coccolava i suoi figli era considerato patetico e poco virile. Il padre doveva mantenere la sua autorità, e la moglie doveva sottomettersi.

Quest’ordine cominciò a sgretolarsi non per merito degli uomini ma delle donne. A partire dagli anni settanta e ottanta le donne cominciarono a rivendicare le pari opportunità e a puntare a una propria carriera professionale. E mariti e compagni furono costretti a sobbarcarsi parte dei compiti che in precedenza erano destinati alle donne. Di conseguenza cominciarono a crescere anche le aspettative nei loro confronti. Ma la società reale è rimasta indietro. Nel “Rapporto sui padri” commissionato qualche anno fa dal governo tedesco il 69 per cento dei giovani papà dichiarava di contribuire all’accudimento dei figli più di quanto non avesse fatto il proprio padre e di considerare questo cambiamento una conquista personale. Eppure, nel 2019 i padri di figli sotto i tre anni che hanno usufruito del congedo parentale sono stati solo il 2,6 per cento, contro il 42,2 per cento delle madri.

Evidentemente i papà non sanno bene cosa vogliono: non vogliono essere considerati meno importanti delle mamme, ma hanno comunque difficoltà ad abbandonare i vecchi schemi. Sono convinti che il modello del padre tradizionale abbia perso la sua funzione, ma non sanno immaginarsi davvero con cosa sostituirlo. In un certo senso è come se noi padri ci ritrovassimo scissi tra epoche diverse.

Quando educhiamo i nostri figli ci portiamo sempre appresso i fantasmi del passato

Forse tutto questo ha che fare con le esperienze che abbiamo avuto come figli. Durante il mio viaggio a ritroso ho imparato che troppo spesso sottovalutiamo il ruolo svolto dai nostri padri. “La maggior parte di quelli che diventano papà ha poca dimestichezza con i neonati”, spiega Michael Lamb, psicologo statunitense che nel 1976 contribuì a fondare i moderni studi sulla paternità con il suo libro The role of the father. “È per questo che di solito s’ispirano all’unico uomo che conoscono che abbia avuto esperienza con i bambini: loro padre”.

Lamb si trova nel Maryland, negli Stati Uniti. Ci sentiamo su Zoom. Magari, mi dice, da bambini avevamo un buon rapporto con nostro padre e crescendo cerchiamo di fare come lui. Oppure vogliamo fare meglio, superando il trauma di un’infanzia infelice. Nostro padre ci accompagna sempre. In Germania il rapporto con la figura paterna è particolarmente ostico. All’inizio del novecento gli uomini partirono per la guerra convinti di tornare da eroi. Spesso i sopravvissuti erano ridotti a relitti sul piano emotivo. I reduci traumatizzati, che avevano fatto e subìto cose terribili, non erano più in grado di fare da esempio a nessuno. Ma ci provarono lo stesso. Nel suo libro Ein Land, drei Generationen (Un paese, tre generazioni), lo psicologo Wolfgang Schmidbauer definisce questi uomini “giganti infelici”.

Uno di questi giganti infelici ha esercitato la sua influenza anche sulla mia famiglia e, in base all’ipotesi di Lamb, anche sulla mia idea di paternità. Mio nonno paterno era un nazista convinto e pericoloso, che una volta tornato dalla prigionia si dedicò a terrorizzare la sua famiglia lottando disperatamente per mantenere la sua autorità. Proibiva ai figli di sedersi a tavola a fare i compiti, perché le gambe delle sedie consumavano il tappeto.

Mio padre soffrì tantissimo a causa di suo padre e quando ebbe dei figli cercò a sua volta di fare ogni cosa meglio di lui. A me e ai miei fratelli leggeva storie, ci aiutava a costruire dighe e ci insegnava ad andare in bicicletta; ai nostri compleanni faceva gli spettacolini con le marionette. Per l’epoca era un padre moderno, ma di problemi ne abbiamo avuti lo stesso. La sua speranza che il figlio di cui si era occupato con tanto amore venisse su bene non si è realizzata: ero poco dotato per la musica e lo sport, privo di ambizioni e pure piagnone. A volte mio padre dubitava che sarei riuscito “a combinare qualcosa”.

Una volta lo stilista Karl Lagerfeld spiegò concisamente perché non consigliava di fare figli: “Fanno chiasso e rischiano di deluderti”. Nella mia generazione siamo tantissimi a pensare di non essere stati capaci di soddisfare le aspettative dei nostri padri. Certamente non era quello che mio padre avrebbe voluto, eppure io ho dovuto combattere con la sensazione che non mi apprezzasse per quello che ero.

Quando educhiamo i nostri figli, o almeno ci proviamo, ci portiamo sempre appresso i fantasmi – buoni o cattivi che siano – del passato. Ancora oggi per me è importante dimostrare a mio padre di aver “combinato qualcosa”. Allestisco anch’io spettacoli di marionette ai compleanni e spesso mi chiedo cosa farebbe lui al posto mio. Quando noi figli ormai da tempo ce ne eravamo andati di casa, mia madre si ammalò per un lungo periodo. Per anni mio padre si occupò di lei facendole coraggio, senza mai lamentarsi o far trasparire dubbi sulla futura guarigione. Ne fui impressionato. Quando devo tenere duro e dare il meglio di me, penso sempre a mio padre.

Molto meno egocentrico

Dopo essermi separato dalla madre di Luna, ho conosciuto l’amore della mia vita, la donna con cui sono sposato. La nostra è una relazione molto più felice, soprattutto per il sostegno che la mia compagna mi dimostra e perché io sono stato molto meno egocentrico. Lei lavorava a Berlino mentre io facevo la spola con Amburgo. Abbiamo avuto una figlia e presto abbiamo dovuto temere per la sua vita. Quando Lotta, una tenera neonata dagli occhi grandi e vivaci, aveva sei settimane, lei e la mia compagna sono venute a trovarmi ad Amburgo. D’un tratto Lotta ha cominciato a urlare e non la smetteva più. Io minimizzavo: sicuramente erano delle colichette. Ma siccome non dava segno di voler smettere, siamo andati dal pediatra. Erano quasi le 18 ed eravamo gli ultimi pazienti. Lotta non gridava dalla rabbia, gridava dalla disperazione, e a noi si stava gelando il sangue. Dopo averle tastato la pancia, il medico ci ha detto che, avendo lavorato a lungo in un ospedale pediatrico, si era già imbattuto anche in qualche raro caso di invaginazione intestinale nei neonati. Avremmo dovuto fare degli accertamenti. Ci ha spediti in pronto soccorso in taxi. L’ecografia ha confermato la sua diagnosi: l’intestino tenue di Lotta era penetrato nel suo intestino crasso. Da quel momento in poi è stato tutto molto rapido. Hanno messo nostra figlia, che non la finiva più di gridare, su un lettino, incaricando me di tenerla ferma. La terapia era semplice: il medico le ha iniettato una sostanza nell’intestino per far sì che una pressione in direzione opposta liberasse l’ansa invaginata. Dopo la procedura, Lotta si è zittita di botto. Passato il dolore, si è addormentata.

Nei neonati un’invaginazione intestinale può interrompere la circolazione del sangue e basta un’ora perché i tessuti comincino ad andare in necrosi. Cosa sarebbe successo se avessimo aspettato? O se il pediatra ci avesse detto di tornare a casa? Probabilmente nostra figlia non avrebbe superato la notte. Da quel momento la paura è stata una costante nella mia vita. Sono diventato un padre ansioso, sempre pronto al peggio: mia figlia che finisce sotto un’auto o che cade dal balcone. So che basta poco per far precipitare drammaticamente le cose e, da quando Lotta è stata male, conosco il valore dei momenti belli. Prima vivevo in attesa di grandi cose, dopo quella sera ho capito che una cosa grande ce l’avevo già. Così ho lasciato il lavoro ad Amburgo per trasferirmi a Berlino.

Lieselotte Ahnert, psicologa dello sviluppo alla Freie universität di Berlino, ha coniato alcuni termini per definire questa trasformazione. Nella sua terminologia sono passato da restricted father a enriched father: se prima ero un padre poco espansivo e poco coinvolto, adesso ero un padre impegnato, che voleva partecipare a ogni aspetto dell’educazione dei suoi figli. Mi piacerebbe molto essere considerato un enriched father. Secondo Ahnert, circa un terzo dei padri è enriched, mentre un terzo è restricted, cioè si assume il compito di accudire i figli solo in misura limitata. Tutti gli altri sono balanced, una via di mezzo.

Ora di dormire, 2018. (Zachary P. Stephens)

Partecipare all’educazione delle mie figlie mi riusciva meglio man mano che gli riconoscevo loro una personalità indipendente, non plasmabile da parte di noi genitori. Le vedevo come individui autonomi che si rapportavano a me in quanto tali e che formavano me tanto quanto io formavo loro. L’educazione dei figli non è una strada a senso unico: è uno scambio in cui si riceve, basta lasciare che succeda. Me ne ha dato l’occasione Greta, la mia terza figlia, nata a soli 22 mesi di distanza da Lotta. Il carattere di Greta era completamente diverso da quello delle sue sorelle: era una bambina dai saldi princìpi. Quando io ho solo una vaga idea del da farsi, Greta ha un progetto.

È stata mia moglie a propormi di fare un viaggio con lei. Capivo cosa voleva dirmi: il rapporto con i figli non nasce spontaneamente, bisogna lavorarci, come si lavora a un rapporto di coppia. Quando Greta aveva dodici anni siamo andati per qualche giorno a Londra. Credevo che sarebbe bastata una semplice regola per fare di questa breve vacanza un successone: più è, meglio è. Ero pronto a spendere per qualsiasi stupidaggine desiderasse. Ma Greta non aveva intenzione di permettermelo. Quando siamo stati al binario 9 e 3/4 della stazione di King’s Cross, sulle tracce di Harry Potter, l’ho trascinata nell’annesso negozio di souvenir. Greta è stata un’ora a confrontare tutti i prezzi e poi mi ha detto: “Vieni papà, andiamocene. Questi prezzi sono esagerati!”. E ce ne siamo andati, ore e ore a zonzo per la città. Per mia figlia contava molto di più. Questo mi ha insegnato Greta: non si tratta di fare grandi gesti, l’importante è prendersi del tempo l’uno per l’altra. Soprattutto il tempo necessario a capire che bambine e bambini hanno la loro personalità, magari anche molto diversa da quella dei genitori. Interiorizzato questo, diventa possibile imparare da loro.

Il team di ricercatori di Lieselotte Ahnert ha fatto una scoperta interessante: c’è un altro modo per essere un buon padre. Volendo potremmo chiamarlo il binario 9 e 3/4 della paternità, all’inizio neanche si vede. Ovviamente prendersi del tempo ed essere vicini ai propri figli sono buone mosse. Ma l’influenza maggiore di un padre passa soprattutto da cose fatte accidentalmente. È una specie di magia.

Dagli studi di Ahnert e del suo gruppo emerge che il contributo paterno è fondamentale per le capacità linguistiche dei figli, proprio perché in genere rispetto alle madri i padri sono loro meno vicini. La familiarità tra mamme e bambini è spesso alta, anche quando leggono i libri. Molti padri invece, non conoscendo i codici dei bambini, gli pongono sfide maggiori: fanno domande e usano parole che i figli non conoscono.

Un altro modo ancora è il gioco: “Non puoi fare niente di meglio che giocare con tuo figlio”, mi spiega Anna Machin, antropologa britannica e autrice del libro Diventare papà. Secondo lei, giocando in modo scatenato come a molti padri viene naturale fare con i figli, i bambini imparano a comunicare con gli altri. Impegnandosi un po’, ogni padre scoprirà come dare il suo specifico contributo allo sviluppo del bambino. “Il papà non fa le cose come la madre, ma a modo suo. L’evoluzione non ha bisogno di due attori per un ruolo solo”, aggiunge Machin.

Ma per trovare liberamente il proprio ruolo, i padri non devono solo lottare con se stessi. A volte le loro difficoltà derivano dal poco spazio di manovra che gli lasciano le madri. Il team di Lieselotte Ahnert ha studiato anche la divisione dei ruoli tra donne e uomini, rilevando che nelle famiglie tradizionali, in cui solo l’uomo lavora, la cura del bambino è riservata soprattutto alle donne, che tendenzialmente impediscono ai padri di prendersi delle responsabilità. A tal proposito si parla del cosiddetto effetto gate-keeping, che viene meno quando entrambi i genitori lavorano. Infatti è principalmente in questo caso che si assiste ad una rivisitazione dei ruoli tradizionali.

Perché possa esserci un nuovo padre, deve esserci anche una nuova madre. Quando lavorano, le donne cedono agli uomini più spazio in famiglia. Mia moglie lavora a tempo pieno, io quattro giorni alla settimana. Di conseguenza io ho più incombenze domestiche, ma sono anche più libero di definire il mio ruolo di padre. A volte mia moglie e io siamo semplicemente obbligati a scambiarci i ruoli. Finché la pandemia non ci ha costretto al lavoro a distanza, era soprattutto lei quella che rincasava tardi lamentandosi della dura giornata di lavoro. E capitava che io avessi una reazione stizzita e risentita quando la cena che avevo preparato si seccava troppo nel forno.

Nonostante tutto, io non ricopro il ruolo della madre, e mia moglie non ricopre quello del padre. È lei che guida la macchina (io ho paura) e che si occupa d’iscrivere le bambine ai vari corsi di sport. Nelle questioni di stile, invece, di solito l’interpellato sono io. Ma è soprattutto lei che interviene quando si tratta di problemi emotivi, mentre la connessione internet che salta continua a essere di competenza del maschio di casa.

La paternità che vivo non è idilliaca come quella che si vede nei blog dei papà, ma a me piace lo stesso. Il modello di padre che rappresento sicuramente non è l’unico che funziona: ci sono tanti modi altrettanto validi di fare il padre. Lamb, lo psicologo che spiegava quanto i nostri padri influenzano il modo che noi abbiamo di essere padri, ci dice anche un’altra cosa: per essere un buon padre non serve essere il padre naturale. Non serve neanche essere particolarmente virile (e qui tiro un sospiro di sollievo) e a dirla tutta non serve neanche essere un maschio. Se la scienza si concentra tanto sull’influenza positiva dei padri nelle coppie eterosessuali, dice Lamb, è soprattutto perché questo tipo di relazioni è stato praticamente l’unico a essere studiato. “Quando la ricerca si è estesa anche a rapporti familiari non tradizionali, si è visto che genere e orientamento sessuale, un tempo ritenuti importanti, in realtà non lo sono affatto”. Per i bambini e le bambine è positivo avere intorno più persone con caratteristiche diverse, qualcuno più bravo a consolare e qualcuno più di stimolo. Che si tratti di una madre e un padre, di due padri, due madri o di un intero gruppo di amici è irrilevante. Secondo Lamb il fattore decisivo non è chi sei o come sei. La cosa fondamentale è avere il coraggio di essere se stessi con i figli.

Per i padri che, com’è successo a me con la mia primogenita, non sono stati presenti come avrebbero desiderato, Lamb ha qualche parola di conforto. “Spesso per i figli il rapporto con la madre resta quello più importante. Ma per molto tempo la psicologia non è riuscita a capire che l’importanza di una certa relazione non implica che tutte le altre siano insignificanti”. Anche padri meno presenti possono dare contributi decisivi; l’importante è esserci con tutto te stesso nei momenti in cui sei presente, avere interesse a conoscere i tuoi figli, occuparti di loro. Per un bambino anche il teatro delle marionette può significare molto.

Sbagliare senza paura

Il mio viaggio sta per finire. Dopo aver parlato con diversi esperti, credo di dover essere io a stabilire cosa sia un buon padre, solo così potrò riuscire a esserlo. Come conclusione non mi pare pessima. E forse, una figlia dopo l’altra, qualche passo avanti nella scoperta del padre che mi piacerebbe essere l’ho anche fatto. Ma una domanda resta: magari sappiamo qual è il bene dei figli, ma siamo sicuri che coincida con il bene del padre? Sì, mi risponde Ulrike Ehlert, psicologa dell’università di Zurigo. Il materiale più importante per le sue ricerche è la saliva maschile. Attraverso i test salivari esamina i livelli ormonali dei padri. La sua équipe ha scoperto che già durante la gravidanza il livello di testosterone nell’uomo si abbassa, facendolo diventare più tenero ed empatico. Ma non è un fenomeno passeggero: se il padre mantiene uno stretto contatto con il bambino, il livello dell’ormone (presente anche nelle donne) si attesta su livelli inferiori. Il fenomeno non è stato riscontrato solo in occidente. Risultati simili sono emersi anche nelle Filippine: i padri che condividono il letto con i figli hanno livelli di testosterone stabilmente bassi.

Solo in un secondo momento, quando i figli hanno tra i cinque e i sei anni, il livello dell’ormone si alza di nuovo. A meno che non arrivino altri figli, perché in quel caso i valori restano bassi. Questa particolare chimica ormonale giova alla famiglia, ma a quanto pare anche ai padri. Quando gli scienziati hanno esaminato la loro soddisfazione nella vita, è emerso che i più contenti sono quelli che convivono con i figli e con le loro madri, e che presentano livelli di testosterone più bassi. In altre parole, potremmo spingerci a dire che i padri teneri sono anche i più felici. A un padre capita di dover sopportare anche prolungati periodi di difficoltà, ma vale la pena di tenere duro. Ho dovuto aspettare che Juli avesse sette anni perché diventasse più indulgente con me, e credo che alla fine ci abbiano aiutato anche i periodi di lockdown imposti dal covid-19, quando ho dovuto aiutarla con la didattica a distanza e l’ho vista lamentarsi dei compiti mentre lei mi vedeva imprecare sugli articoli che dovevo scrivere. Insomma, abbiamo sofferto insieme. Un giorno mentre mangiavamo e io fissavo sconsolato il mio piatto, ha detto: “Oh, credo che papà sia triste!”. Poi è scivolata giù dalla sedia per venire ad abbracciarmi. Solo allora ho capito quanto mi avesse reso triste il mobbing da parte della mia figlia più piccola. Probabilmente essere un buon padre significa anche saper lasciar correre.

Da qualche anno Luna ha un ragazzo fisso. È strano quando capisci di non essere più l’unico uomo nella vita di tua figlia. Credo che sia io sia lui ci siamo avvicinati con grande rispetto, perché quando è stato il momento abbiamo finto che fosse la cosa più normale del mondo. È stato rassicurante vedere che la generazione di maschi successiva alla mia è altrettanto insicura, ma la cosa che mi ha reso più felice è stato vedere quanto fosse importante per Luna che noi due ci conoscessimo. Per me significa che non vuole lasciarsi suo padre alle spalle, ma vuole che io continui ad accompagnarla. E lo farò, nonostante i miei errori. Perché per me essere autentico significa lasciare che le mie figlie possano cogliere le mie difficoltà, i miei sbagli e i miei fallimenti. Per me è stato importante dire a Luna quanto mi dispiacesse non essere stato presente come avrei dovuto nei suoi primi anni di vita.

Durante il corso preparto l’ostetrica mi disse che non dovevo aver paura di fare errori. Anche i figli sbagliano, e sono bravi a perdonare. A volte ci penso quando una delle mie figlie mi fa arrabbiare: quante cose sono state capaci di perdonarmi. Così, come se niente fosse.

(Traduzione di Susanna Karasz)

Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2021 nel numero 1415 di Internazionale.

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