Questo articolo è parte di una campagna a cui hanno aderito scrittrici e giornaliste italiane per denunciare la violenza di genere e nominarla.
Ho sempre associato l’essere innamorata con l’avere paura. Una paura che mi ha tenuta viva e in perenne allerta. Se non era paura fisica, era una paura più astratta, perfino intellettuale, o forse un bisogno di sottomettermi per sentirmi accettata, all’altezza, oppure più semplicemente amata.
La paura, naturalmente, non esclude il coraggio. Sono sempre stata temeraria o almeno credevo di esserlo: conquistare uomini inaccessibili è una sfida che mi ha sempre elettrizzato. Ricordo bene il giorno in cui ho deciso di farla finita con le sfide elettrizzanti. Era una giornata fredda di febbraio, quella della mia personale liberazione. Avevo fatto una seduta su Skype con la mia psicoterapeuta e una frase mi aveva particolarmente colpita. Mi lamentavo con lei della relazione con un uomo che avrei dovuto chiudere definitivamente e che invece trascinavo, nonostante l’enorme sofferenza – fisica e psicologica – che mi aveva procurato in passato.
“Mi tiene al telefono a parlare della sua disperazione”, dissi alla dottoressa. “E tu dije che c’hai er sugo sur foco”, mi disse la dottoressa con il suo accento romano, lasciandomi spiazzata. Quella frase, che poi come un rituale magico pronunciai davvero, e che a mia volta ho riciclato con varie amiche, era la frase con la quale, senza saperlo, mi sarei liberata dai padri padroni.
In fondo si trattava di una forma di potere che lui continuava a esercitare su di me, non di amore, ma questo l’avevo capito solo da poco. Possibile che l’istruzione e un’infinità di libri letti non mi abbiano permesso di liberarmi di quel gioco di potere? “Sembri così forte e indipendente”, mi dicevano le amiche. Ed era vero, lo ero. Ma proprio perché lo ero, pensavo – sbagliando – che avrei potuto reggere la sfida. Ora era arrivato il momento. Avevo il sugo sul fuoco e dovevo proprio andare.
A quel punto però cominciava la parte difficile, erano nate dentro di me una serie infinita di domande: perché confondevo l’amore con la paura? Perché avevo lasciato che gli uomini esercitassero tutto quel potere su di me? Forse era proprio per ribellarmi a quel potere che le mie relazioni erano sempre state un litigio continuo? E ancora: come avevo fatto a sopportare per anni le molestie del mio capo sul lavoro? C’era forse una correlazione tra il mio rapporto tossico con il lavoro e le mie relazioni con gli uomini? Le risposte sono arrivate a poco a poco e sono state dolorose, ma anche liberatorie.
Da quel giorno del sugo tutto è cambiato e sono successe soprattutto due cose: da un lato mi sono avvicinata in maniera più pratica che teorica al femminismo e dall’altro ho cominciato a esercitare una sorta di magnetismo involontario verso le donne maltrattate. Mi sono ritrovata spesso a parlare con donne che avevano subìto o stavano subendo, oppure avevano paura di subire, violenza fisica e psicologica: amiche, conoscenti, sconosciute. Del resto, ho incontrato davvero poche donne che non hanno subìto violenze. Nel 2019 ho co-fondato insieme ad altre donne una piccola associazione di promozione sociale che da allora, faticosamente e con pochi fondi, si occupa di organizzare iniziative per promuovere la parità di genere.
In questi anni ho parlato con scrittrici, attiviste, operatrici. Dicono tutte che la violenza fisica è grave, ma a volte è peggio quella psicologica, perché è più difficile da individuare, essendo così invischiata e tollerata dalla nostra cultura. Ho conosciuto uomini colti, straordinariamente simpatici e intelligenti, che traboccano di misoginia. Di più: la misoginia può uscire allo scoperto proprio quando hanno a che fare con donne indipendenti e autodeterminate.
Il padre dell’assassino di Giulia Cecchettin ha detto che il figlio Filippo Turetta “forse voleva farle paura, costringerla con un coltello, ma poi gli è partito l’embolo”. Mi ha molto colpito questa frase perché normalizza il fatto che un uomo possa o debba far paura a una donna. Quando leggiamo queste storie sulle pagine di cronaca nera ci sembrano sempre lontanissime dal nostro quotidiano, la vicenda di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta invece l’abbiamo vissuta come vicina, per ragioni che sono state sviscerate in questi mesi.
Il 25 novembre del 2023, la giornata contro la violenza sulle donne, nella cittadina umbra in cui vivo le donne sono scese in piazza e hanno parlato. Donne che non avevo mai visto a una manifestazione, non attiviste o politiche, ma insegnanti, impiegate, casalinghe. E così è successo in tutto il paese. Una delle ragioni è forse anche il fatto che Cecchettin era una ragazza forte, emancipata, e invece noi le vittime le immaginiamo sempre fragili e indifese.
La prima indagine europea
A essere vittime di violenza di genere sono anche le donne forti ed emancipate, che lavorano e sono indipendenti economicamente. E succede che gli uomini maltrattanti siano uomini comuni, non necessariamente “mostri”, anzi affascinanti e di successo, magari anche progressisti o di una classe sociale o culturale alta. È proprio la nostra normalità borghese che ci ferma spesso dal parlare. Invece le nostre figlie dovrebbero imparare il prima possibile una verità tanto importante quanto semplice: essere innamorate non vuol dire avere paura. Quella paura l’abbiamo vista messa in scena nel film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, in cui il bianco e nero illude le spettatrici che si tratti di una vicenda remota, ma invece quel labbro ferito di cui Delia, la protagonista, si vergogna, ha risvegliato molti ricordi in molte di noi.
Nel 2020 è stato condotta la prima indagine europea sulla violenza di genere dalla Fundamental human rights agency (Fra). Lo studio è basato su quarantamila donne di 28 paesi dell’Unione: l’unica forma di violenza che è stata esclusa è il femminicidio. Una delle questioni indagate è la relazione tra indipendenza economica e violenza: donne istruite, che magari guadagnano più del partner, sono esposte a una maggiore violenza? Lasciare un compagno violento è più facile per una donna che ha risorse economiche proprie?
Lo studio sostiene che quando una donna è indipendente dal punto di vista economico la violenza si sposta e cambia target: dallo spazio privato si passa a quello pubblico con le molestie sessuali, dato che le donne stanno più fuori casa. Nello spazio privato il rischio di violenza domestica si attenua per mogli o compagne che guadagnano quanto il partner, ma aumenta per quelle che guadagnano di più.
Questo non vuol dire che non dobbiamo lavorare o che dobbiamo guadagnare di meno. Al contrario, uno dei risultati che lo studio della Fra ha registrato è che vivere in un nucleo familiare economicamente disagiato aumenta notevolmente la probabilità di subire abusi di ogni tipo. Nel complesso, dunque, lavorare rappresenta un fattore di protezione per le donne, nella misura in cui non si esagera con il reddito. Tuttavia, una notizia positiva c’è: le donne che sanno di poter contare su una rete di centri antiviolenza hanno una più probabilità d’interrompere una relazione tossica.
Sono nata il 25 novembre, data poi diventata giornata contro la violenza sulle donne. La prima telefonata che ho ricevuto il mio scorso compleanno non è stata di auguri, ma quella di una donna che voleva denunciare una violenza. “Signora, credo che abbia sbagliato numero”, le ho detto appena sono riuscita a fermarla, poi le ho dato il numero del centro antiviolenza del comune in cui vivo, lei mi ha ringraziato e ci siamo salutate. Ho pensato di nuovo a quel magnetismo, al fatto che attraggo inspiegabilmente donne maltrattate, anche se forse quella donna si era confusa con il numero della nostra associazione femminista. In ogni caso, aver aiutato quella donna a trovare quello del centro antiviolenza è stato un bel regalo di compleanno.
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