Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica.
Salve, mi chiamo Viktor Martinovič e all’età di 44 anni ho vissuto tre vite. Tre vite in un secolo in cui la maggior parte delle persone non riesce a viverne nemmeno una. Per essere più chiari, quando dico tre vite intendo per ciascuna l’insieme integrale delle percezioni di me stesso in una data epoca.
Tre diverse tipologie di sogni.
Tre diversi insiemi di valori.
Tre sé diversi.
Tre diversi modi di cadere in inganno.
Devo interamente le mie morti e le mie rinascite a un evento accaduto esattamente trent’anni fa: il crollo dell’Unione Sovietica. E quindi all’emergere di un nuovo paese, la Repubblica di Bielorussia, e al mio successo letterario in questo paese.
Poi c’è stato il ritorno dell’Urss: nel più ferreo, nel più completo senso della parola. Un ritorno che si è consumato prima dentro i confini della piccola repubblica bielorussa, poi, a livello sovranazionale, attraverso l’unione con la gigantesca Russia.
Il Viktor pioniere
“Io, entrando nei ranghi dell’organizzazione dei pionieri dell’Urss…”. Qui ebbi un momento di esitazione, non perché non conoscessi il giuramento a memoria, ma perché, dall’emozione, mi mancò il fiato per continuare. “Davanti ai miei compagni (inspiro ed espiro) giuro solennemente (pausa, la vista si annebbia dall’emozione, mi rendo conto che questo è il giorno più importante della mia vita, che mai ci sarà niente di più importante, mai, mai, mai). Giuro. Giuro. (Qui sento la forza di questa parola). Giuro di amare ardentemente la mia patria (ovviamente intendo l’Urss); di vivere, studiare e combattere come ha insegnato il grande Lenin e di rispettare le leggi dei pionieri dell’Urss”.
Ci preparavano a questo rituale per mesi: bisognava imparare a fare il nodo al fazzoletto, a stirarlo, е imparare a ripetere a pappagallo il giuramento e le leggi dei pionieri. Se qualcuno prendeva un’insufficienza in condotta, scattava la minaccia di non essere ammessi all’organizzazione. Questo faceva tornare lo scolaro sulla buona strada, perché all’epoca, non essere ammessi, significava più o meno quello che oggi significherebbe farsi confiscare la carta di credito.
Al momento di fare il nodo al fazzoletto, il mio compagno di classe Saša svenne dall’emozione.
Era l’ottobre del 1987.
Il 27° Congresso del Partito era già passato.
Si era già in piena perestrojka. Due anni dopo il muro di Berlino sarebbe caduto.
I grandi portavano i jeans e nella lingua e negli argomenti dei giornali principali si sentiva già odore di marciume. Sugli scaffali dei negozi di alimentari c’era la Pepsi-Cola e nei negozi di musica era in vendita il disco Ravnodestvie (equinozio) di Boris Grebenščikov, zeppo di esaltazione per il nuovo tempo. C’era la canzone Pokolenie dvornikov i storožej (una generazione di portinai e guardiani) che parlava di rocker e scrittori che avevano deciso di vivere controcorrente e che quindi, per vivere, dovevano lavorare come fuochisti, portinai e guardiani (e tuttavia erano ammirati da un sacco di gente).
Ma tutto questo non c’era nella mia realtà. Io credevo fermamente nel futuro radioso dell’Urss. Credevo che per tutta la vita avrei “vissuto, studiato e combattuto, come ci ha insegnato il grande Lenin”.
In televisione davano un film in due parti, Gostja iz buduščevo (Ospite dal futuro), sulla Mosca sovietica del 2084, dove alcuni pionieri come me, a bordo di razzi di linea, raggiungevano facilmente la Luna e il pianeta Urano, anch’essi sotto il governo bolscevico. L’idea che avevo del destino era interamente racchiusa nelle scene inondate di luce di questo film: eccomi che a bordo di un flip (un’auto volante a due posti) sorvolo la mia Minsk. Eccomi a combattere gli agenti del capitalismo che dai paesi ostili si sono infiltrati per sabotare le imprese della grande industria della Repubblica Sovietica Socialista Bielorussa.
Se qualcuno mi avesse detto che tutto questo sarebbe presto finito, l’avrei presa molto male. L’Urss non era il posto dove vivevo. L’Urss ero io.
Il Viktor Bielorussia
L’indipendenza arrivò senza che noi bielorussi ce ne rendessimo conto. Senza violenze. Fu il risultato di quanto era accaduto nelle repubbliche vicine. Delle azioni dell’organizzazione democratica lituana Sąjūdis, che portarono ai fatti del gennaio 1991, con la brutale repressione del movimento indipendentista e i violenti scontri per il controllo degli edifici strategici di Vilnius, tra cui gli studi della tv.
Fu il risultato del crollo dei prezzi del petrolio e dei problemi economici, con l’inizio della fase del “deficit” (allora poter metter in tavola una polenta di grano saraceno, uno degli alimenti base della nostra cucina, era talmente difficile che per tutta la vita ho conservato una vera e propria devozione per questo cibo tanto semplice). Bisognava mettersi in coda per comprare qualsiasi cosa.
Fu il risultato della guerra in Afghanistan, che aveva generosamente fornito “ragazzi di zinco” alla repubblica (prendo in prestito il titolo del libro di Svetlana Aleksievič): migliaia di giovani coscritti che tornarono a casa in bare di zinco sigillate. Fu il risultato di Černobyl e dell’inadeguata reazione della nomenklatura del partito, che cercò di nascondere le conseguenze del disastro.
Fu un crescendo inarrestabile di errori il cui esito fu quello che successe nella tenuta di Viskuli, dove nel dicembre del 1991 furono firmati gli accordi di Belaveža, che segnarono la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Ma se chiedete a me quale sia la ragione principale del declino di uno stato un tempo temibile, io la penso così: non fu per via del petrolio né di Černobyl né dell’Afghanistan. Non fu a causa del rock russo o dei jeans. Tutto questo, molto più probabilmente, ne fu una conseguenza.
Ciò che aveva reso l’economia pianificata dipendente dal petrolio e l’ideologia sovietica vulnerabile agli errori del partito – che per farla franca li ha sempre insabbiati (come in occasione del massacro di Novočerkassk nel 1962) – è stata l’abolizione del sistema schiavistico. Che in Urss era rappresentato dall’onnipotente Gulag. Fu l’esercito di prigionieri reclutati da Stalin, che estraevano carbone, nichel e stagno e costruivano città nel permafrost senza essere pagati – a dare l’impulso alla crescita in un paese che altrimenti avrebbe fabbricato solo missili nucleari.
Quando nel 1957 il Gulag fu liquidato, la principale fonte di prosperità per l’Urss, che occupava un sesto delle terre emerse, scomparve.
Ma torniamo al mio paese.
La Bielorussia si era ritrovata a far parte dell’Urss per una serie di circostanze indipendenti dalla volontà dei suoi abitanti. Adesso eravamo diventati indipendenti nostro malgrado.
L’erosione del luminoso mondo del mio futuro sovietico procedette senza intoppi e impercettibilmente. Ero troppo giovane per capire cosa fossero Sąjūdis o Viskuli o per leggere giornali diversi dalla Pionerskaja Zorka.
Il nuovo sistema di valori non arrivò dai cambiamenti della mappa geopolitica del pianeta, ma dal bosco vicino a casa mia.
Erano passati sei mesi da quando ero diventato pioniere e un giorno successe che tre studenti della scuola N171, proprio di fronte a casa mia, andati nel bosco per “scavare un rifugio sotterraneo e giocare ai partigiani”, s’imbatterono in un teschio umano. Nelle vicinanze ne fu trovato anche un altro. La principale rivista letteraria bielorussa, Litaratura i mastatstva, scrisse delle loro scoperte, riferendo che i teschi appartenevano alle vittime delle repressioni staliniane (il bosco era citato nei documenti dell’Nkvd, la polizia politica antenata del Kgb, con il nome di radura di Kurapaty).
La mia famiglia, però, non era abbonata alla rivista, quindi io scoprii i fatti di Kurapaty – dove durante le grandi purghe staliniane furono uccise decine di migliaia di persone – quando il mio compagno di scuola Mitjaj trovò un teschio nel bosco e mi chiamò per andarlo a vedere. C’era un buco non proprio regolare nella nuca. Si sentiva che dentro c’era qualcosa. Girando il cranio ne cavammo un proiettile schiacciato di piombo.
I nostri genitori ci spiegarono che la persona a cui era appartenuto il teschio era stata uccisa, molto probabilmente senza nessun motivo, negli anni trenta.
Forse era un poeta.
O uno scrittore.
Uno delle centinaia di scrittori che furono fucilati la notte del 29 ottobre 1937.
O un kulako, cioè un contadino che aveva rifiutato di unirsi al kolchoz durante la collettivizzazione.
O un prete.
O un semplice cittadino, sacrificato per rispettare le quote stabilite da Mosca sul numero delle condanne a morte da eseguire.
Il Viktor-pioniere morì allora, nella radura di Kurapaty. Non riuscivo a capire come il principio “vivere, studiare e combattere come il grande Lenin ci ha insegnato” potesse condurre a un proiettile di piombo nel cranio. Ma non potevo immaginare che fosse opera delle spie o dei nemici. Sabotatori o paracadutisti nazisti. Fascisti o “polacchi bianchi” che la letteratura sovietica per bambini ci aveva insegnato a temere.
Queste cose le avevano fatte i nostri, i nostri compagni.
Le avevano fatto perché… Perché?
Perché era necessario?
Serviva a qualcuno?
Cosa può costringere uno stato che invita gli scolari “ad essere compagni fedeli, a rispettare gli anziani, a prendersi cura dei più piccoli, ad agire sempre secondo onore e coscienza” (Quinta Legge dei Pionieri) a colpire alle spalle i suoi cittadini?
Dove sono l’onore e la coscienza?
I princìpi e i valori che la scuola sovietica tanto industriosamente e accuratamente mi aveva inculcato si rivoltavano contro se stessi. Il nero si rivelava bianco. Fu Lenin l’artefice del “Terrore Rosso”.
A poco a poco, cominciai a scrivere testi in prosa. Prima in russo. Poi in bielorusso. Dopo tutto, dopo le purghe staliniane, il numero di autori che scrivevano nella propria lingua madre era esiguo: la maggior parte degli “scrittori sovietici bielorussi” aveva trascorso il novecento a sfornare opere secondo il canone dominante: il realismo socialista. Così, quando nel 1991 la Repubblica di Bielorussia si materializzò dal nulla, i suoi giovani cittadini dovettero reinventarla, riempire di contenuti la sua cultura e riscoprire la sua storia dimenticata.
Dopo un po’ di tempo cominciai ad avere successo, i miei libri erano tradotti in altre lingue e centinaia di lettori venivano a farseli autografare.
Per tutto questo tempo l’Urss è rimasta lì accanto a noi, a due passi. E nell’autunno del 2020 ci ha inghiottiti di nuovo, bloccando tutto ciò che stava maturando da quasi trent’anni.
Il Viktor dissidente sovietico
La Bielorussia è scomparsa dai radar dei mezzi d’informazione europei intorno all’ottobre 2020, quando si è capito che le manifestazioni di protesta, in cui i cittadini contestavano in massa i risultati delle elezioni presidenziali, non avevano portato a nessun risultato.
Gli europei che hanno mantenuto l’interesse per il nostro paese sanno che alle manifestazioni è seguita la “reazione” dello stato: arresti, condanne. Più di trentamila persone fermate e processate “per sommosse” e 869 prigionieri politici, condannati a pene pesantissime.
Ma la cosa più interessante è successa senza che ce ne accorgessimo. Nella cultura. La cultura della Repubblica di Bielorussia – cioè il teatro, la musica, la letteratura della nazione – è stata completamente annichilita. Tutte le case editrici indipendenti sono state perquisite. Musicisti, attori teatrali e artisti di lingua bielorussa hanno abbandonato il paese.
Al posto della cultura bielorussa è tornata ala ribalta, in tutto il suo splendore, la cultura della Repubblica Sovietica Socialista Bielorussa: liste di proscrizione, permessi per esibirsi, concerti cancellati, compreso quello del vecchio rocker Boris Grebenščikov, che aveva espresso il proprio sostegno ai manifestanti.
Io non ho più successo come scrittore bielorusso. Sono diventato il fuochista della canzone di Grebenščikov sulla “generazione di portinai e guardiani”.
Accendo la stufa.
Leggo un libro.
Aspetto la primavera.
Spero…
Dopotutto può anche succedere che una persona che ha vissuto tre vite all’età di 44 anni possa avere diritto anche a una quarta. Si sopravvivrà, anche da dissidenti, fino ai tempi nuovi? Fino alla perestrojka 2.0?
Quand’è che si ricorderanno di te, ti toglieranno dalle liste nere, inizieranno a consentire l’allestimento dei tuoi spettacoli in teatro, ti permetteranno di girare un film, di pubblicare un libro?
Succederà, giusto?
Ma ho l’impressione di chiedere troppo. In fin dei conti ho vissuto ben tre vite, io. Tre vite in un secolo in cui la maggior parte delle persone non riesce a viverne nemmeno una.
(Traduzione di Alessandra Bertuccelli)
Questo articolo è il primo di una serie dedicata alla fine dell’Unione Sovietica. In collaborazione con Voxeurop.
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