Camminare è politica
Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2012 nel numero 945 di Internazionale.
La donna vaga per le strade della città. I suoi occhi, incapaci di mettere a fuoco, assorbono a tratti una confusione di parallelogrammi grigi, marroni e rossi, che lei, pur consapevole del loro peso immenso, percepisce inconsistenti come spore di soffione; e a tratti fissano i volti delle persone che incrocia con una tale intensità che, quando si concentra su un’unica fisionomia, sente che basterebbe un piccolo ulteriore sforzo per riuscire a dedurre tutto di quell’individuo: età, occupazione, esperienze sessuali, affiliazioni politiche, nomi di parenti e amici.
Per una frazione di secondo, la donna è trafitta dalla personalità unica dell’individuo, che tuttavia viene subito riassorbito dalla folla. Accanto, nella carreggiata, scorre il traffico: rombano gli autobus, stridono i camion, scattano le automobili, serpeggiano le motociclette, eppure non si sentono rumori meccanici, tutti quei parallelogrammi d’acciaio si sovrappongono, si mescolano e si succedono accompagnati da pigolii, gorgoglii e ronzii elettronici, una colonna sonora sulla quale la nostra camminatrice può coreografare tutto il traffico, umano e veicolare, mentre i suoi occhi, saettando abili, imbastiscono un ordine impeccabile nel caos che la circonda, e che dunque pulsa al ritmo imposto dalla sua volontà divina. È completamente smarrita: non saprebbe dirvi il nome di una sola via o edificio di rilievo.
È disorientata, eppure avanza attraverso lo spazio urbano lungo una traiettoria perfettamente organizzata: guarda il luminoso, sfaccettato gioiello che regge nel palmo della mano, e altri parallelogrammi si sovrappongono, si mescolano e si succedono reagendo ai gesti delle sue dita, che ora pizzicano, ora scattano come la bacchetta di un direttore d’orchestra. Le dice dove andare, il gioiello, e quando la donna se lo accosta all’orecchio le parla, ordinando alle sue gambe incerte di portarla a destra, a sinistra, dritto davanti a sé, fino a incontrare un volto che finalmente riconoscerà, o forse no. Senza che lei lo voglia l’occupazione, i precedenti sessuali, le affiliazioni politiche, i nomi di parenti e amici di lui la raggiungono. Eppure, nei millisecondi che trascorrono prima che i due si intercettino, lei è attraversata dalla terribile sensazione che la personalità dell’uomo sia solo uno stereotipo. Fino a quando lui, misericordiosamente liberato dalla folla, non le approda tra le braccia. “Scusa il ritardo”, ansima lei, perfettamente consapevole dei suoi tre chili di troppo. “La metro è lontana chilometri”. Di fatto, ha percorso esattamente 723 metri.
Mi auguro che questo venga considerato per quello che è: una descrizione lievemente poeticizzata della condizione mentale che caratterizza una giovane donna alle prese con lo spazio urbano. Il modo in cui reagisce ai suoi concittadini, al traffico stradale, alla necessità di orientarsi utilizzando un gps portatile mentre ascolta musica sul suo lettore di mp3 è nel complesso abbastanza normale, eppure, osservato in questi termini, mi sembra che abbia delle indiscutibili analogie con quello che la medicina definisce uno stato psicotico. Come succede a chi soffre di psicosi, la percezione che la nostra giovane donna ha della realtà è radicalmente diversa dall’ambiente in cui si trova: è circondata da edifici reali, con dei nomi precisi e comprensibili; le persone che incrocia lungo il cammino sono una massa di sconosciuti; né loro né i veicoli si muovono in sincrono con la musica che ascolta; e infine la sua percezione della distanza è distorta, mentre la sua capacità di interagire con l’ambiente dipende da sistemi esterni alla sua mente, il cui funzionamento le risulta incomprensibile quanto i rituali di uno sciamano. La verità è che, pur di riuscire ad arrivare all’appuntamento con il suo fidanzato, per la nostra giovane donna non farebbe alcuna differenza consultare un feticcio o gettare una manciata d’ossa sul marciapiede, per scegliere dove dirigere i suoi passi.
Senza il supporto della tecnologia, di solito i cittadini urbani non sanno dove si trovano
Che il nostro modo di esistere nell’ambiente urbano industrializzato (e ora postindustriale) sia per alcuni versi profondamente distorto è un’osservazione tutt’altro che inedita. Negli anni quaranta dell’ottocento, Friedrich Engels scriveva della “brutale indifferenza, l’insensibile isolarsi di ciascuno nel proprio interesse privato” che “si fa tanto più repellente e offensivo quanto più questi individui si accalcano uno sull’altro in uno spazio limitato”. Quello che Engels definiva come il principio fondamentale delle società di ogni luogo, non era comunque “mai così sfrontatamente scoperto, così consapevole, come qui, nella calca della grande città”.
Ma già Thomas de Quincey, scrivendo vent’anni prima, aveva percepito nella frenesia delle grandi strade di Londra un’alterazione fondamentale nella natura dei legami umani. Fuggito di casa da adolescente, raccontava di essere stato salvato da una ragazzina, Ann, con cui aveva trascorso alcune settimane, e che gli aveva evitato di morire di fame per strada. Il giorno in cui avrebbero dovuto salutarsi, De Quincey cercò di organizzare un appuntamento con lei. Se uno dei due non fosse riuscito ad arrivare, avrebbero ritentato la sera successiva. Ma la ragazza non si presentò per molte sere consecutive e lui, pur avendola cercata in lungo e in largo per la città, non la ritrovò mai più. “È questa”, dice, “tra i problemi che affliggono la vita di quasi tutti gli uomini, la mia afflizione più grande. Se fosse stata viva, di certo prima o poi ci saremmo cercati nello stesso istante nei poderosi labirinti di Londra”.
Qualcuno potrebbe dire che se lui e Ann avessero avuto accesso a internet si sarebbero potuti individuare enza margine d’errore; che i poderosi labirinti di Londra – la cui popolazione all’epoca era circa un ottavo di quella di oggi – sarebbero stati irrilevanti. De Quincey dice che il non essere riuscito a ritrovare Ann è la sua “afflizione più grande”, e così facendo sembra rendere la sua perdita emblematica dell’abbandono dei legami personali di un’intera società. Chiede di Ann a molte persone, ma l’unica cosa che conta, nella città, l’unica che sia misurabile, è la folla. L’individuo, soprattutto se povero e di sesso femminile, non ha alcun valore.
Nel racconto di Edgar Allan Poe L’uomo della folla, pubblicato nel 1840, il narratore anonimo è colpito da una certa fisionomia “per l’assoluta singolarità della sua espressione. Non rammentavo d’aver mai veduto una cosa del genere. Com’ebbi posato lo sguardo su quel volto, il primo pensiero che attraversò il mio cervello fu che, se Retzsch lo avesse incontrato, subito ne avrebbe fatto un modello per le sue rappresentazioni pittoriche del demonio”. Non è necessario avere familiarità con le incisioni di Moritz Retzsch per capire dove voglia andare a parare Poe, in particolare se si considera che, fino a quel momento, i volti delle persone che il narratore aveva incontrato nelle brulicanti vie di Londra erano stati descritti come semplici variazioni di tipi predefiniti: l’uomo della folla che dà il titolo al racconto è il primo individuo autentico in cui s’imbatte.
Tuttavia (e qui l’ironia di Poe prefigura in modo drammatico il senso di alienazione urbana del novecento), mentre segue questa particolare persona, il narratore si rende lentamente ma inesorabilmente conto che la sua preda non può esistere separata dalla folla, che la sua espressione diabolica e il suo aspetto consunto sono un effetto diretto del bisogno che quell’uomo ha di trovarsi costantemente in mezzo ad altre persone. L’epigrafe che Poe sceglie per L’uomo della folla è di La Bruyère: “Ce grand malheur, de ne pouvoir être seul” (che gran disgrazia non poter essere soli).
Anno dopo anno, il numero di tragitti percorsi a piedi continua a diminuire
Qualcuno potrebbe sostenere che la città offra un’esperienza liberatoria, che sottraendoci al controllo – morale e politico – delle piccole comunità chiuse, l’esistenza urbana abbia favorito la realizzazione di sé e, per estensione, la sanità mentale. Ma gli esempi di Engels, De Quincey e Poe appartengono a un’epoca di urbanizzazione rapida, in cui il paesaggio della città si poteva ancora attraversare a piedi. Forse la genialità di questi scrittori della prima metà dell’ottocento è stata di prefigurare le conurbazioni del mondo occidentale del duemila, in cui il controllo della folla è affidato a telecamere a circuito chiuso, sorvegliate solo sporadicamente e in modo casuale, mentre la distanza e l’orientamento sono astratti dalla dimensione fisica.
Io non credo che sia un’ipotesi fantasiosa. L’anonimo narratore di Poe è incapace di sperimentare la solitudine in senso sociale, ed è la sua stessa personalità a dipendere dalla massificazione urbana. La nostra camminatrice, per contro, è incapace di sperimentare la solitudine in senso fisico: non sapendo dove si trova e non avendo le risorse fisiche necessarie ad attraversare porzioni considerevoli della città affidandosi alla sola forza motrice del suo corpo, è condannata a un’esistenza nello spazio socializzata.
Nel suo magistrale libro Storia del camminare, Rebecca Solnit descrive il senso di pericolo provato durante le sue passeggiate notturne a San Francisco: “Fui avvisata di restare a casa di notte, di portare abiti informi, di coprire o tagliare i capelli, di cercare di somigliare a un uomo, di trasferirmi in una zona più facoltosa, di spostarmi in taxi, di comperare l’automobile, di muovermi in gruppo, di farmi accompagnare da un uomo: tutte versioni aggiornate delle mura greche e dei veli assiri”. E quindi si rende conto che “molte donne perfettamente socializzate, prendendo atto del posto che era stato scelto per loro, avevano accettato vite più gregarie e conformiste senza neppure comprenderne le ragioni. Avevano così soffocato il semplice desiderio di camminare da sole”.
Epicuro sosteneva che il libero arbitrio è solo una sensazione illusoria che si sperimenta quando le azioni imposte dalle circostanze coincidono casualmente con quello che desideriamo. A mio avviso, la descrizione si adatta perfettamente alla percezione psicotica dello spazio che caratterizza buona parte degli abitanti delle città del nostro tempo, mentre le minacce esistenziali che affliggono le donne e quelle che, con l’autorizzazione dello stato, gravano in special modo sui giovani maschi neri delle città britanniche, sono state interiorizzate perfino da chi – i bianchi, gli individui di mezza età e del ceto medio – non avrebbe ragione di esserne oppresso. In sostanza, privati dei mezzi di locomozione meccanici – automobili, autobus, treni – e senza il supporto della tecnologia, di solito i cittadini urbani non sanno dove si trovano, e non sono in grado di andare altrove servendosi solo dei propri mezzi.
Ma non sono neppure in grado di formulare il desiderio di farlo. Per quel che li riguarda, i tragitti che devono compiere per andare al lavoro, a fare acquisti, a divertirsi, a mantenere i contatti con le loro conoscenze, coincidono con lo sfruttamento dell’ambiente urbano. E anche il camminare volontario e non pianificato si mantiene entro i confini di questi contesti: l’esempio più eclatante è quello dei centri commerciali. Eppure, fino a poco più di un secolo fa, il 90 per cento dei londinesi preferiva ancora fare a piedi i tragitti inferiori a dieci chilometri: in molti casi era per andare e tornare dal lavoro, è vero, ma anche camminare verso il posto di lavoro implica una presa di possesso fisica dell’ambiente e l’esercizio delle proprie capacità di orientamento. Anno dopo anno, il numero di tragitti percorsi a piedi continua a diminuire. Anzi, secondo studi recenti entro la metà di questo secolo saranno definitivamente tramontati.
Non più soggetta al controllo umano, la città ha già acquisito lineamenti distorti: lunghe e ampie arterie affiancate da vicoli ciechi, mentre l’architettura che Rem Koolhaas ha definito “spazio spazzatura” presuppone che solo il corridoio possa essere accettabile, soprattutto se provvisto di un bancomat. La periferia, e l’interzona tra la città in senso stretto e il suo hinterland rurale, sono l’incarnazione tangibile di questo disinteresse, nel loro essere sequele di località geografiche ormai incapaci di trasmettere alcun senso di luogo. Ripensiamo a Borges e alla sua “mappa dell’impero che aveva l’immensità dell’impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le generazioni seguenti, meno portate allo studio della cartografia, pensarono che questa mappa enorme era inutile e non senza empietà la abbandonarono alle inclemenze del sole e degli inverni. Nei deserti dell’ovest sopravvivono lacerate rovine della mappa, abitate da animali e mendichi; in tutto il paese non c’è altra reliquia delle discipline geografiche”.
Gli animali e i mendichi di Borges sono coloro che ancora indagano le norme della geografia fisica: comprendiamo che camminare nella città e nei suoi dintorni equivale, in un senso assai potente, a usarli. Il flâneur contemporaneo è, per natura, una forza democratizzante che persegue la parità dell’accesso, la libertà di movimento e la dissoluzione del controllo esercitato dalle aziende e dallo stato.
(Traduzione di Matteo Colombo)
Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2012 nel numero 945 di Internazionale.