Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2018 nel numero 1256 di Internazionale.
Il 30 luglio 1904 il quotidiano britannico Daily Mail pubblicò un annuncio insolito. Si cercava una mummia egiziana “a un prezzo ragionevole”: serviva “per produrre un colore” che presto avrebbe arricchito un affresco del palazzo di Westminster, a Londra, o di qualche altro edificio importante. Si trattava di un marrone chiamato bruno di mummia. Fa pensare a un trucco scadente per Halloween, ma in effetti le spoglie dei ricchi egiziani sono state per secoli una merce ambita.
I pittori le apprezzavano perché la polvere di mummia era perfetta per le ombreggiature e secondo i medici era un rimedio miracoloso: il filosofo e medico britannico Francis Bacon giurava che riuscisse a bloccare le emorragie. Il re Francesco I di Francia portava sempre con sé una scatolina di polvere di mummia, mescolata al rabarbaro, per curare le ferite. Nel cinquecento la domanda di mummie trafugate ed essiccate al sole era così alta che circolavano dei falsi realizzati con schiavi o criminali imbalsamati. Gli artisti discutevano su quali parti della mummia producessero il bruno più saturo: alcuni suggerivano i muscoli tendinosi, altri le ossa e i bendaggi.
All’inizio del novecento, quando il Daily Mail pubblicò l’annuncio sulla mummia, i rifornimenti ormai scarseggiavano. Nel 1964 il colorista londinese Roberson & Co., commerciante con un lunga tradizione alle spalle, annunciò che era stata usata l’ultima mummia: “Da qualche parte si possono trovare ancora un paio di gambe, ma non sono sufficienti a produrre colori”.
Due degli ultimi tubetti di bruno di mummia rimasti alla Roberson & Co. sono esposti oggi in una vetrina al quarto piano di un museo nel campus universitario di Harvard, a Boston, negli Stati Uniti. I pezzi d’esposizione Straus 17 e Straus 17a, ovvero il bruno di mummia, molto simile al color castagno, sono collocati tra lo Straus 1.341, cioè la terra d’ombra, un pigmento nero-bruno ricavato dalla polvere di limonite, e lo Straus 3.545, una radice di robbia macinata: una tonalità di bruno molto vicina al rosso mattone, usata dai romani per colorare la lana tinta d’azzurro e ottenere così un viola.
Lungo venti metri di scaffali, ben visibili dall’atrio in vetro progettato dall’architetto Renzo Piano, sono esposti i pigmenti più rari e preziosi della storia dell’arte. L’intera gamma di colori dell’arcobaleno, distribuita in più di 2.500 recipienti di vetro, barattolini e tubetti: tonalità di giallo ricavate dall’estratto di bacche persiane, violetti accesi che vanno dalla malva alla porpora e addirittura venti tonalità diverse di bianco.
“Tenga presente anche il collante”, spiega Narayan Khandekar, un signore distinto sulla cinquantina con i capelli ben pettinati e gli occhiali dalla montatura sottile. Khandekar apre lo sportello in vetro dell’ultima fila di scaffali e accarezza recipienti con resine, oli e proteine. “Lo so, alla gente in genere interessano più i pigmenti che i collanti. Ma per me è un dovere spiegarvi la loro importanza”, dice. Khandekar è direttore dello Straus center for conservation and technical studies, l’istituto di ricerca degli Harvard art museums responsabile della conservazione e degli studi sul colore. È uno dei più grandi al mondo nel suo genere. Khandekar è il custode dei colori. Si è imposto il compito di studiare la vita dei pigmenti: come ha pensato l’essere umano di usare le cocciniglie per ottenere un rosso acceso? Come sono arrivati i pittori del rinascimento alla loro palette di colori? Cosa c’entrano le miniere siberiane con il pittore Vincent van Gogh?
È uno dei capitoli più curiosi delle arti figurative: la storia dei colori è anche la storia di come gli esseri umani hanno cercato e cercano di appropriarsi della bellezza naturale. “Le persone sono affamate di colori, essenziali per la nostra percezione del mondo”, dice Khandekar. L’occhio umano riesce a riconoscere all’interno dello spettro di luce 2,4 milioni di sfumature. Nell’età della pietra l’Homo sapiens ricavava dalla terra tonalità di giallo e di rosso per le pitture rupestri, ottenendo invece il nero dal carbone. “I pigmenti hanno sempre avuto un valore culturale, avevano la stessa importanza delle spezie. Già trentamila anni fa gli esseri umani affrontavano viaggi di centinaia di chilometri per commerciare in colori”, spiega Khandekar.
Per produrre i colori serviva molta inventiva: diversi secoli prima di Cristo, in Perù gli inca scoprirono che da più di 50mila cocciniglie di forma ovoidale si poteva spremere mezzo chilo di acido carminico color rosso acceso. Il pigmento rosso ricavato da questi insetti è considerato uno dei colori più intensi del mondo: nel cinquecento, dopo la scoperta dell’America, diventò il bottino più prezioso dei colonizzatori spagnoli, insieme all’oro e all’argento. Nel 1587 gli spagnoli trasportarono con le loro navi 72 tonnellate di rosso carminio – cioè più di sette miliardi di cocciniglie – da Lima, in Perù, fino alla Spagna. Da Siviglia e Cadice il pigmento raggiungeva le colorerie olandesi, il Vaticano, dove i cardinali indossavano talari color carminio, e perfino la Cina. Americani e francesi erano così infuriati per il monopolio spagnolo di questi insetti che più di una volta cercarono di saccheggiare le navi cariche di rosso carminio
Ancora oggi le cocciniglie sono usate come coloranti alimentari nei wurstel e nei confetti di cioccolato M&M’s. Nel 2012, a causa delle proteste degli animalisti, la catena di caffetterie Starbucks ha rinunciato a usare il rosso ricavato dalle cocciniglie per il frappuccino alla fragola.
Falsi Pollock
Nella storia dell’arte la ricerca sul colore è una disciplina abbastanza giovane. A occuparsi della storia dei pigmenti sono poche centinaia di esperti in tutto il mondo. La biblioteca di colori di Narayan Khandekar è stata creata perché il suo fondatore, il ricco collezionista d’arte di Boston Edward W. Forbes, cent’anni fa fu vittima di una truffa.
Forbes, che collezionava con passione dipinti del rinascimento italiano, comprò da un mercante europeo una Madonna con bambino di Benozzo Gozzoli. Si scoprì poi che il quadro era stato ampiamente restaurato: i volti erano stati ritoccati e intere porzioni di colore erano state modificate. Per evitare che si ripetessero incidenti di questo tipo, Forbes istituì un nuovo indirizzo di studio agli Harvard art museums: storia dell’arte tecnica.
Per riconoscere le contraffazioni era importante che gli esperti studiassero più a fondo i materiali e le tecniche di lavoro degli artisti. Forbes fu il primo direttore di museo degli Stati Uniti ad assumere anche chimici e studiosi della conservazione. Viaggiò per raccogliere campioni di colore e, durante un soggiorno londinese, ottenne due tubetti di bruno di mummia oggi esposti al museo. Altri campioni provengono da produttori di colori di tutto il mondo e da archeologi che hanno rinvenuto antichi pigmenti nei sepolcri storici in Turchia e Siria. Furono missioni “alla Indiana Jones”, dice Khandekar. La maggior parte dei campioni conservati nel suo archivio ha più di cent’anni.
Alcuni anni fa Khandekar, originario di Melbourne, percorse con il suo fuoristrada la costa settentrionale dell’Australia per studiare i colori dell’arte tradizionale aborigena. Recuperò campioni dalle fenditure di rocce ocra, dove da millenni gli artisti aborigeni mischiano colori naturali con cui dipingono la parte interna delle cortecce d’albero. “In ogni cultura ed epoca i colori hanno rappresentato una forza importante, sociale ed economica. Eppure sappiamo ancora poco sulla loro produzione e sul loro uso fuori dall’occidente”, dice Khandekar.
Nel 1856 il chimico Henry Perkin, facendo esperimenti per trovare un rimedio contro la malaria, scoprì il primo colorante artificiale
Allo Straus center dell’università di Harvard una squadra di 25 persone, composta da chimici, archeologi, geologi e storici dell’arte, studia tra le altre cose la coloritura dei libri dei sovrani persiani e la tecnica per la vetrina dai toni azzurro-violetto dell’antica ceramica cinese jun, del dodicesimo secolo. Ancora oggi la sua realizzazione è un mistero. “I vasi erano riservati alla famiglia imperiale e la ricetta per la vetrina era tramandata per via orale di generazione in generazione. Poi questo sapere andò perduto”. Per secoli le dinastie cinesi hanno provato a riprodurre la ceramica blu-violetto, ma senza successo.
Khandekar è un chimico. Solo tardi, durante gli anni del dottorato, si appassionò all’arte e cominciò a girare per musei e gallerie. “L’arte aveva per me qualcosa di misterioso e magico”, dice, il contrario della chimica, con le sue tabelle degli elementi e le strutture molecolari. Poi Khandekar si trasferì a Londra, dove si specializzò nello studio dei materiali dal punto di vista artistico. Della sua occupazione parla come di un “lavoro da detective” forense. Insieme ai suoi collaboratori analizza le opere d’arte usando tomografi computerizzati, scanner 3D e microscopi laser, gli stessi strumenti adoperati in medicina. Opere non ancora catalogate di antichi maestri possono essere ricondotte a un preciso periodo di produzione dell’artista grazie alle analisi chimiche. Inoltre, è possibile identificare colori e tecniche pittoriche ancora sconosciute, ottenendo informazioni fondamentali per un restauro il più rispettoso possibile.

Una delle imprese di maggiore importanza della squadra di Khandekar risale al 2007, quando i ricercatori hanno confrontato i campioni di colore di un quadro attribuito al pittore statunitense Jackson Pollock con i pigmenti della biblioteca del colore di Harvard. Hanno scoperto che il quadro era stato contraffatto: quando il pittore era vivo, i pigmenti rinvenuti in quel quadro non esistevano ancora. Nello stesso modo i colleghi tedeschi hanno scoperto i trucchi del “falsario del secolo”, Wolfgang Beltracchi. Nel 2008 il Doerner Institut di Monaco ha trovato tracce di bianco di titanio in un quadro espressionista che era stato venduto a una galleria di Colonia come originale del pittore tedesco Heinrich Campendonk. Peccato che il bianco di titanio fu inventato solo dopo la morte di Campendonk.
Gli studiosi dei colori raccontano che la storia dell’arte è fatta non di geni solitari che definiscono le epoche e gli stili, ma soprattutto dalla possibilità o meno di usare certe sostanze chimiche. I commercianti veneziani specializzati in pigmenti all’inizio del cinquecento si chiamavano vendecolori. Avevano il monopolio dei colori più ambiti e più pregiati del mondo: l’oltremarino, per esempio, un blu notte intenso più resistente di qualsiasi altra tonalità di blu e, per un certo periodo, anche più costoso dell’oro. Si otteneva dalla macinazione di lapislazzuli, pietre blu che si estraevano solo nelle miniere di Badakhshan, in Afghanistan.
Cammelli e asini trasportavano le rocce lungo la via della seta fino in Siria, da qui i vendecolori le facevano arrivare via mare a Venezia, e da Venezia in tutta Europa. I pittori del rinascimento veneziano usufruivano di un prezzo di favore: nei suoi affreschi, Tiziano poteva applicare metri e metri quadrati di oltremarino e creare costosissime scene celesti. A Norimberga, invece, Albrecht Dürer doveva usare con parsimonia il prezioso materiale e si lamentava del fatto che l’oltremarino gli costasse cinquanta volte il prezzo dei normali colori naturali. Alcuni mecenati preferivano acquistare personalmente quel lussuoso blu per controllare come veniva usato. Nei contratti stabilivano con una precisione al grammo quanto oltremarino dovesse essere uso per ogni rappresentazione della Vergine commissionata all’artista
Come un buco nero
La fama di nuovi pigmenti sempre più intensi e resistenti ha indirizzato il corso dell’arte pittorica. I produttori di colore sperimentavano qualsiasi idea stravagante: nel quattrocento l’indian yellow (giallo indiano), un intenso giallo limone, veniva ricavato dall’urina delle mucche indiane nutrite solo con foglie di mango. Nel medioevo una certa tonalità di verde si otteneva, a quanto pare, avvolgendo del rame ossidato in un panno intriso di miele, immergendolo nell’urina e poi facendo fermentare il composto per quattordici giorni.
Solo dalla rivoluzione industriale in poi è diventato possibile creare tutti i colori della palette: nell’ottocento entrarono in commercio, da un giorno all’altro e come prodotti di scarto della ricerca chimica, un numero infinito di nuove e luminose tonalità di viola, rosa, giallo e verde. Senza questi colori, Vincent van Gogh non avrebbe potuto portare su tela il suo mare di girasoli e Claude Monet non avrebbe potuto dipingere le sue ninfee. I giochi di luce degli impressionisti furono resi possibili da chimici come il britannico William Henry Perkin: nel 1856, facendo esperimenti nel suo laboratorio per trovare un nuovo rimedio contro la malaria, scoprì per caso il primo colorante artificiale, la malveina. Il verde smeraldo, un altro ossido di rame e uno dei colori preferiti da Van Gogh, era usato dalle sarte parigine come veleno per topi.
La ricerca di colori esclusivi non è finita. In una vetrina all’ingresso della biblioteca dei colori di Khandekar, ad Harvard, è esposta una lamina in metallo accartocciato che cattura lo sguardo dei visitatori come un buco nero. Anche se la lamina è stropicciata, guardandola di fronte sembra di vedere una superficie piana, perché il colore è fatto di nanotubi di carbonio che assorbono la luce al 99,96 per cento. È il nero più nero del mondo: il vantablack. Lo scultore angloindiano Anish Kapoor si è assicurato per una cifra milionaria i diritti esclusivi del suo uso, suscitando la reazione indignata degli altri artisti. Ma il fatto che la scoperta di nuovi colori faccia scalpore nel mondo dell’arte è l’eccezione, spiega Khandekar.
Oggi i produttori di colori cercano nuove soluzioni innovative soprattutto per motivi commerciali: ogni giocattolo, copertina di libro e dentifricio contiene una certa quantità di coloranti. Nonostante i numerosi tentativi di analisi scientifica, alcuni colori rimangono un mistero per Khandekar: da dieci anni cerca una tonalità di arancione usata nel 1966 dal minimalista statunitense Donald Judd per laccare una sua scultura. “Judd usava solo colori spray di famose aziende automobilistiche, come la Bmw e la Ford. Ma non abbiamo trovato quell’arancione in nessun catalogo cromatico”.
“Nella Grande onda di Kanagawa, la xilografia dell’artista giapponese Katsushika Hokusai, non è strano che il colore predominante dell’opera sia il blu: dopotutto rappresenta un’onda. Tuttavia la xilografia fa parte di una serie, Trentasei vedute del monte Fuji, dove l’uso del blu è predominante. Può sembrare un fatto insolito, invece non lo è: nel 1830, quando Hokusai cominciò a lavorare a queste incisioni, il blu era una novità. Infatti il cosiddetto blu di Prussia usato dall’artista giapponese era stato introdotto in Giappone solo pochi anni prima”, scrive New Scientist.
“Storicamente il blu è sempre stato un grosso problema per gli artisti, perché ci sono poche fonti naturali per questo colore. Oggi ci sono molti coloranti solubili, che sono perfetti per colorare i tessuti. Ma i pigmenti blu insolubili che servono per la pittura, per stampare le matrici, decorare le ceramiche e la plastica sono ancora rari. Di recente, durante una conferenza a Londra, lo scienziato David Dobson ha lanciato l’idea di usare la ringwoodite, un minerale che si trova a 500 chilometri di profondità sotto la superficie della Terra, per creare un nuovo blu. A pressioni normali la ringwoodite perde il suo colore blu intenso, e Dobson voleva trovare il modo di catturare il colore e conservarlo anche in superficie. Nel gennaio del 2017 lo scienziato ha potuto sperimentare la sua idea alla Slade school of fine art di Londra. Il risultato dei suoi esperimenti è stato buono, ma va ancora perfezionato per capire in che modo la combinazione degli elementi chimici influenzi l’intensità del blu ricavato dalla ringwoodite”.
Questo articolo è stato pubblicato il 18 maggio 2018 nel numero 1256 di Internazionale.
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