Apichatpong Weerasethakul, il tailandese vincitore della Palma d’oro nel 2010 conLo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, è di ritorno con Mekong Hotel, un documentario d’autore, una sorpresa nascosta nella programmazione del festival. Come sempre un viaggio tra due mondi, tra opposti.

Come scritto nello scorso post, quest’anno il documentario d’autore primeggia con numerose opere sorprendenti. No di Pablo Larraín è un film ambientato in un passato che pare girato adesso, fa cioè del passato un presente.

Mekong Hotel è invece l’inverso: un passato nel presente. Il presente è cioè un cavallo di Troia, per parlare di un passato doloroso e fantomatico. Un passato che non passa mai. E che quando questo avviene, lo fa in maniera brutale. O troppo o troppo poco. Un documentario con intrusioni improvvise di finzione che sono come reminiscenze, da un sogno, da un’altra vita, da un’altra età del cinema. Situato – per essere più precisi rispetto all’inizio – più che tra due mondi, nell’intercapedine, negli interstizi tra di essi.

Chi è Weerasethakul, ormai messo sul podio? I Cahiers du Cinéma hanno celebrato Tropical malady, nominandolo ai primi posti della loro classifica dei migliori film del decennio duemila, assieme a Lynch o Van Sant. Stessa cosa lo statunitense Film Comment. Sight and Sound, al momento dell’uscita di Lo zio Bonmee che si ricorda le vite precedenti in Inghilterra, accompagnò la lunga recensione del film ad un vasto articolo-saggio di analisi sull’opera del regista con tanto di copertina a lui dedicata. E così via…

Tutto cominciò per Api, come è ormai confidenzialmente chiamato (o anche Joe), nel 2002 quando i Cahiers du Cinéma lo preferirono con Blissfully yours – il suo secondo lungometraggio – alla “scoperta” annunciata di Cannes di quell’anno, il messicano Carlos Reygadas, autore di un viaggio nel Messico rurale girato con un formato da cinemascope, come per un western. Weerasethakul era presente in Un certain regard, Reygadas nella Quinzaine des réalisateurs, ma quest’ultimo aveva dietro una specie di lobby produttiva. Personalmente amai molto il film di Reygadas, anche se riconosco che le successive prove del regista, come il pur bello La battaglia del cielo, hanno dimostrato una certa furbizia provocatoria e un virtuosismo di regia ostentato. Vedremo cosa ci riserva Post tenebras lux, il nuovo film di Reygadas proiettato in concorso e previsto per stasera.

In realtà, le cose sono un po’ più complesse. Blissfully yours vinse la competizione nella sezione Un certain regard. Nella giuria vi erano tutti francesi, tra cui un critico dei Cahiers (anche se gli altri giurati, tra questi la presidente, la regista Anne Fontaine, erano lontani dai gusti dei Cahiers). E il film fu coprodotto da Anna Sanders, in Francia produttore di molto cinema d’autore di qualità e che ha coprodotto quasi tutti i film di Api. Il film di Reygadas fu comunque apprezzato da buona parte della critica francese, molta di essa, tuttavia, preferì prendere sotto protezione questo tailandese proveniente dalla provincia rurale, figlio di due medici itineranti nei villaggi poveri, fino alla consacrazione a Cannes 2010, quando sedusse profondamente la giuria, in particolare il presidente Tim Burton, Alberto Barbera (tornato a dirigere il festival veneziano), e uno dei più grandi registi spagnoli viventi, Victor Erice. Anche Weerasethakul ha quindi dietro la sua piccola “lobby”, ma è pure il risultato di un percorso che ha sedotto nel tempo personalità diverse provenienti da diverse latitudini.

Veniamo a Mekong Hotel. Girato all’epoca delle gravi inondazioni che hanno colpito la Thailandia nella prima metà del 2011, figlio degenere di un film in divenire o che forse non si farà mai, è ambientato in un hotel vicino al Mekong nel nord est della Thailandia, al confine tra quel paese e il Laos. Come sempre Weerasethakul filma “tra due metà” che sono però anche due opposti. Il bello è che si adagia in essi, ci si culla. Come in questo caso.

Del resto la diarchia è endemica al suo cinema. Ogni film è diviso in due parti, due segmenti in conflitto-complemento tra loro, tra finzione e documentario (quindi realtà), fin dai tempi di Mysterious object at noon. Quest’elemento strutturale ricorrerà in tutti i film successivi. Una dualità che ritroviamo anche nell’opporre ambientazioni diverse che sono al tempo stesso tipi di cinema diversi (la metropoli, filmata quasi in stile documentaristico, e la giungla, filmata via via in maniera sempre più plastica, metafora dell’inconscio, in Tropical Malady), tra malattia e positività (anche qui tutti i film, con accentuazioni diverse), eterosessualità e omosessualità (Tropical Malady e Syndromes and A century), amore e desiderio (tutti i film, di nuovo), immigrati clandestini e abitanti natii (la storia d’amore in Blissfully yours), passato (autentico e profondo ma anche problematico perché doloroso: quello delle follie provocate dal “credo” comunista) e presente (altrettanto problematico ma piallatore della diversità e della memoria). Anche questo è vero per tutti i film, ma l’aspetto politico spicca in particolare in Zio Boonmee. E infine tra vivi e morti, fantasmi e umani, ovviamente, perché Weerasethakul è per definizione un cineasta della memoria.

Un cinema endemicamente schizofrenico ma che accetta e contempla la schizofrenia contemporanea: la propria parte oscura (il finale di Tropical malady). E al contempo sofferente per questa schizofrenia indotta da processi di modernizzazione culturalmente e socialmente fagocitanti e violenti.

Nell’hotel Mekong una donna vampiro vive con senso di colpevolezza la sua essenza. Quell’essenza che scorre tranquilla lungo le acque placide del Mekong. La donna vampiro mangia le viscere della figlia. Poi d’improvviso si torna al realismo, al documentario, come se nulla fosse accaduto: disfunzioni temporali, tra realtà e sogno, verità e leggenda. Tra effetti speciali digitali e artigianali. L’intero documentario è come il Mekong: un lungo, dolce ipnotico flusso, metaforizzato dalla colonna sonora, un sottofondo permanente di chitarra acustica. Ma la dolcezza di questo flusso è solo apparente: il mostro dorme. E può mutarsi nel mostro della terribile inondazione. Il vampiro dorme in noi e può divorare tutti e tutto. Cosi come la modernità può offrici nuove opportunità, ma divorare dal di dentro la nostra anima, la nostra identità spirituale con nuovi ninnoli tecnologici infantili. Poiché quello che è registrato dal film – che alla fine documenta con interviste e dialoghi talvolta sofferti e sussurrati – è un comune sentimento di assenza di speranza, giustizia e vero futuro. E i fantasmi senza pace di una dittatura. Tutto si perde nel nulla, nella dolcezza dei disegni lasciati sul fiume dalle moto d’acqua con cui Hotel Mekong si chiude. Intanto Api è tornato tra i suoi fantasmi, come Monet tra le sue ninfee.

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