Secondo me a Vincenzo detto [Enzo Jannacci][1] un coccodrillo non sarebbe piaciuto molto. Quindi niente chiacchiere su quanto sia stato un artista fondamentale nella musica italiana, leggera o no, mah.
Per me è stato una presenza costante da quand’ero bambino, tra i dischi del babbo, rarissima eccezione alla mia assurda dieta a base di opera lirica e Raffaella Carrà.
È stato anche il mio primo concerto pop, al Teatro Quartiere di piazzale Cuoco, momento anni settanta di una Milano irriconoscibile, e la prima persona che mi ha fatto un autografo, che andai a chiedergli tutto timidino dopo il concerto.
In quegli anni mi capitava d’incontrarlo la domenica, quando facevo una passeggiata in zona col papà e lui stava ai giardini di largo Marinai d’Italia con Dario Fo, che allora gestiva/occupava la Palazzina liberty, altro tesoro marginale della mia città.
Ora Jannacci mi manca. Dovrebbe mancare a tutti.
Non so che canzone scegliere per metterla qui. La luna è una lampadina? Andava a Rogoredo? El portava i scarp del tennis? Veronica? Niente? Vengo anch’io. No, tu no? Sfiorisci bel fiore? Prendeva il treno? Prete Liprando e il giudizio di dio? Vincenzina e la fabbrica? Basta, mi fermo, sceglietene una voi a caso, sono tante e tutte splendide. Meglio tra il 1964 e il 1980. O compratevi l’album Quelli che… per sentirvi uno dei suoi molti, grandi dischi e la breve, spietata analisi della Borsa valori (oppure ceratevela su [Spotify][2] o [YouTube][3], che c’è).
Qui c’è una canzone che non era sua, ma che Jannacci cantò in italiano milanesizzandola meravigliosamente. Quando avevo sei anni e me ne stavo sotto casa ad aspettare il 23 al freddo, il suo Pedro Pedreiro che aspettava triste il tram era un mio amico.
Peccato che teneva al Milan.
Alberto Notarbartolo è un vicedirettore di Internazionale molto appassionato di musica e dischi.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it