Per il bicentenario verdiano Sir Antonio Pappano ha portato all’Accademia di Santa Cecilia Un ballo in maschera, capolavoro intoccabile e opera della quale sarebbe bello parlare per ore anche qui. Chi se ne intende, però, mi ha spiegato che i megapost sono un’afflizione per il lettore, quindi mi limiterò a un lato della serata che mi è parso importante.

Tra ruoli principali, due avevanno cantanti italiani (il tenore Francesco Meli era Riccardo, serio e onesto protagonista, e il soprano Laura Giordano era il petulante paggio Oscar) e due di area ex-sovietica (il soprano ucraino Ljudmyla Monastyrska era la bella e – così ribadisce varie volte il libretto – pallida Amelia, e il baritono molto russo Dmitrij Hvorostovskij era suo marito Renato, potenzialmente cornuto e poi assassino).

Se volessi fare il critico esperto direi che i due italiani erano splendidi e gli slavi erano una splendida e uno interessato più alla montagna di suono che riesce a tirare fuori che al senso di quel che succede al suo personaggio, almeno per i primi due atti. Ma qui emerge un problema che non è un dettaglio, e che mi ha molto distratto: che diceva Renato?

Gli altri erano a posto. Meli ha una dizione chiara e sempre articolata. Giordano aveva una parte da preadolescente en travesti cinguettante per la quale in fondo le parole veicolano meno significato del suono, ma ci faceva capire tutto quel che era possibile farci capire. Monastyrska è interprete sensibile e piena di belle idee, anche se il suo italiano posticcio le faceva buttar via frasi che sarebbero state preziosissime.

Ma Hvorostovskij ha buttato via tutto, in un gorgoglìo che poteva essere buffo, anche se non c’era nulla da ridere.

Oltre alla strana lingua, aveva un’intonazione che si aggiustava a nota già emessa, una specie di glissando perpetuo che mi ha ricordato lo Sting dei Police sul suo bel basso fretless. Lui aveva per lo meno la scusante che, mentre suonava, cantava e saltava come un pazzo. Lo statuario Dmitrij invece no, stava lì ben piantato e in fondo non doveva pensare a molto altro. Appena c’era un momento concertante dai ritmi un pochino sostenuti, gli altri andavano a tempo, lui sembrava sempre in ritardo di una sillaba.

Se tra le infinite vicissitudini della redazione del libretto (raccontate in un bel programma di sala: bravi!) Antonio Somma avesse tenuto conto anche di questa variabile, forse non avrebbe fatto entrare Renato con un preoccupato “Deh come triste appar!”, ma con un meno cupo “Ja govorju tol’ko po-russki!”, “Parlo SOLO russo!”. E avrebbe dato un ulteriore, modernissimo tocco politico a un personaggio che già così è sballottato tra Boston e l’Inghilterra. Peccato.

Da dire ci sarebbe molto altro, ma basta così. Magari ci torno su a rate.

Per finire, però, un omaggio alla signora seduta davanti a me. Era lunedì sera, 10 maggio, ed eravamo freschi di risultato elettorale. La signora ha preso un pennarello e ha rabbiosamente cancellato da pagina 1 del programma di sala il nome del terzo membro del consiglio d’amministrazione dell’accademia. Giovanni Alemanno, sindaco di Roma? No, è scaduto.

Alberto Notarbartolo è un vicedirettore di Internazionale molto appassionato di musica e dischi.

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