“Ho sempre amato la sera delle elezioni presidenziali, a parte la finale della coppa del mondo di calcio, è il mio programma televisivo preferito” (Sottomissione, Michel Houellebecq).
Un particolare non indifferente nella riuscita del rituale vittorioso di Alex Tsipras, l’altra domenica ad Atene, è che Syriza ha ottimi disk jockey. Già nel pomeriggio, con la piazza piena in attesa del discorso, tweet in tutte le lingue annunciavano che gli altoparlanti si erano messi a suonare London calling dei Clash. E il Guardian, in un soprassalto di orgoglio combat pubblicava immediamente una parte del testo: “Londra sta per affondare / e io vivo vicino al fiume”. Scritta nel 1979 e immediatamente famosa in tutto il mondo per la frase iniziale “Londra chiama / le città lontane”, London calling è stato in realtà il primo inno popolare post-politico. Perché ripeteva il richiamo storico di Radio Londra, e proclamava che “la guerra è dichiarata / arriva la battaglia”. Ma evocava nell’ordine: un incidente nucleare, il possibile affondamento della città, una carestia, la fermata di tutti i motori. Lo scenario non era quello della rivoluzione, ma di una specie di armageddon - rubato in parte all’immaginario rasta (sul lato b del 45 giri c’era il pezzo reggae Armagideon time) e in parte al cinema catastrofico. Né una possibile redenzione appariva, allora, nei piani terreni del combat rock alle prese con l’esordio dell’era neoliberista.
La presenza dei Clash nella serata vittoriosa di Syriza ha avuto il suo apice nella geniale decisione del disk jockey di suonare Rock the casbah alla fine del discorso di Alexis Tsipras. Lo si vede in alcune riprese dove il neopresidente greco saluta la folla visibilmente felice e commosso, e batte le mani a tempo. Ci si accorge in breve però che la versione scelta è quella del cantante franco-algerino Rachid Taha, con il testo tradotto in arabo e un arrangiamento Rai.
Suonata in una piazza in festa la canzone risulta esplosiva in questa versione del 2007, come lo era stata in quella originale del 1982 che trae origine, come si sa, dal divieto di suonare il rock imposto dall’ayatollah Khomeini in Iran (Al signore non piace / che si suoni il rock nella casbah). Strummer scrive un testo che riprende tutta la complessità personale e politica del suo concetto di combat rock. L’eroe della canzone qui è il pilota mandato dal re a bombardare il minareto dove la folla si è riunita a ballare. Il pilota accende la radio nel suo abitacolo, ascolta la canzone, si mette a piangere e rifiuta di eseguire l’ordine (Non è kosher / fondamentalmente non ce la fa). Non saprei leggere oltre questa scelta dei dj di Syriza se non come una felice casualità, oltretutto a poche settimane dai fatti di Parigi. La canzone contiene un’indicazione preziosa, di questi tempi: Rock the casbah è tutt’altro che militante in senso tradizionale, ma nel solco della tradizione rock è prima di tutto un inno alla diserzione. La diserzione, e le lacrime, come ultima forma possibile di militanza? Narra un aneddoto che quando seppe che i piloti americani scrivevano sulle bombe da lanciare su Baghdad Rock the casbah, Strummer si mise a piangere.
In questo video girato domenica sera (ma non posso garantire che la sequenza audio sia proprio quella originale) rivediamo la fine del comizio di Alexis Tsipras. Dopo Rock the casbah – certamente festosa ma, come abbiamo detto, almeno un tantino enigmatica – il dj manda una specie di sigla in stile elettrodisco perfetta per l’occasione, di sapore molto greco e di sicuro effetto cinematografico. Infatti è un brano della colonna sonora de Il volo (O melissokomos), un film del 1986 di Theo Angelopoulos. Il film racconta la storia del maestro elementare Spyros (Marcello Mastroianni), invecchiato e disilluso, che in un soprassalto di orgoglio molla tutto e torna al sud a fare il mestiere di allevatore di api come suo padre e suo nonno. Certo metaforicamente appropriata per la situazione, la vicenda è tuttavia complicata dall’amore impossibile e tragico di Spyros per una ragazza rock’n’roll di cui non sappiamo neppure il nome (è l’attrice Nadia Mourouzi). Ecco la scena (bellissima) ricostruita a mo’ di videoclip su YouTube.
Eleni Karaindrou è una delle compositrici greche più importanti. Pianista classica, ha completato la sua formazione suonando jazz e chanson a Parigi dov’era fuggita con la famiglia al tempo dei colonnelli (come il povero Demis Roussos e come l’altro compositore di colonne sonore Vangelis). Ha scritto la quasi totalità delle musiche dei film di Angelopoulos, in stile balcanico moderno. Al netto dei molti cliché d’autore che appesantivano Il volo, due pezzi come To wals tou gamou e questo To rock tis kadinas (Il rock della cantina) sono sopravvissuti per loro meriti al film. Due osservazioni: l’idea della cantina e quella del rock richiamano sottilmente e per la terza volta i Clash: Siamo una garage band / veniamo dalla terra dei garage; la metafora del film di Angelopoulos è altrettanto complicata da gestire rispetto alle altre che abbiamo visto fin qui, dal momento che Spyros decide di riprendersi in mano il suo destino solo per cacciarsi in una romantica spirale di amore e morte. Ma che l’impresa di Alexis Tsipras e Syriza debbano avere un lieto fine non l’ha detto mai nessuno. Neppure il dj. E questo lo rende un ottimo dj, davvero.
Non trovo altri video per illustrare questa canzone di Manos Loizos, Tipota den paei xameno (Niente è perduto) che, narrano le cronache, è stata una delle più suonate in piazza in questa versione originale del 1974, cantata da Haris Alexiou e ultracensurata all’epoca. Militante comunista, straordinario cantore della sua generazione, capace di recitare a mente Eliot e morire consumato dalla vita a 44 anni in un ospedale di Mosca, Manos Loizos traccia qui il ritratto crudele e malinconico dell’anziano militante rivoluzionario incapace ora di vivere i compromessi e il piccolo cabotaggio del tran tran quotidiano, perciò depresso.
“Quasi cinquant’anni di durezze e persecuzione / E ora questa disperazione nera/ come iniqua ricompensa / Il tuo combattere per la giustizia / ti ha tolto molte cose”. Ma attenzione, dice il ritornello: “Niente andrà perduto / della tua vita gettata via/ io faccio rivivere il tuo sogno e ogni tuo perché”. Tendere la mano alle generazioni che ci hanno preceduto è un ingrediente importante di ogni vittoria che voglia dirsi di sinistra. Ma il dj di Syriza si mostra spietato e politicamente provocatorio anche qui, quando avverte che il passato e i rituali di sopravvivenza possono essere una prigione peggiore: “Sempre curvo al tavolo di un caffè/ per strada immerso nei tuoi pensieri / Ma ieri alla manifestazione / ti ho visto camminare con un sorriso”. Da sottolineare ancora per completare il sottile gioco di rimandi che il Pasok ha usato a lungo come inno una canzone di Manos Loizos, Kalimera ilie, finché la figlia del cantante nel 2011 ne ha impedito l’uso.
Non è chiaro se Bella ciao abbia chiuso davvero il discorso della vittoria di Tsipras (le immagini suggerirebbero altro), ma un po’ di orgoglio nostro – come quello del Guardian per i Clash – qui è necessario. E proprio perché alle volte tutto torna, la versione del partigiano portami via dei Modena City Ramblers che da quindici anni suona quasi a ogni Primo maggio in piazza San Giovanni deve moltissimo ai Pogues che a loro volta dovevano parecchio ai Clash (finché a un certo punto della sua vita Joe Strummer rimasto solo ci andò a suonare assieme). Non è tanto per Bella ciao, insomma, canzone la cui origine si perde nei misteri del comunismo e dell’etnomusicologia e non ha bisogno di altre esegesi, quanto proprio per i Modena City Ramblers.
Finalmente premiati (e in tutto il mondo) per quello che sono stati: martiri della sinistra resistenziale che gli sono venuti giustamente i capelli bianchi (come al rivoluzionario depresso della canzone di Loizos) mentre la sinistra scivolava a destra, e la destra ancora più a destra. Berlusconi lasciava il posto a Renzi, litigavano Bertinotti, Ferrero e Vendola, e il resto che sappiamo. Tutto perdonato, tutto dimenticato. Ora le bandiere di Rifondazione Comunista possono garrire in diretta mondovisione ad Atene, ignorando noi invidiosi rimasti a casa che sfottevamo la vacanza stile Salvatores della Brigata Calimera ad Atene. Seppellitemi ad Atene, sotto l’ombra di un bel fior. Con tanti saluti alla maledizione di Zante: “A noi prescrisse il fato illacrimata sepoltura”.
Le cronache della vittoria ateniese tramandano i titoli di altre canzoni che hanno trovato posto nell’ora della festa. Tra queste El pueblo unido degli Inti Illimani e People have the power di Patti Smith. Belle, ma un po’ scontate. In realtà il trionfo finale del disk jockey di Syriza è stato nella scelta di una delle più cupe e apocalittiche mai scritte da Leonard Cohen: First we take Manhattan, then we take Berlin, incisa del 1988 sopra un folle arrangiamento euro disco. Che è stata suonata qualche giorno fa durante il comizio congiunto di Tsipras e del leader di Podemos Pablo Iglesias, e i due prontamente l’hanno ribattezzata prima prenderemo Atene, poi prenderemo Berlino. Comincia così: “Mi hanno condannato a vent’anni di noia/ per aver provato a cambiare il sistema dall’interno. Adesso vengo a prendere quel che mi spetta. Prima prenderemo Manhattan e poi prenderemo Berlino”. E ancora: “Mi guida un segnale nel cielo / mi guida la bellezza delle nostre armi/ (…) Mi hai amato perché ero un perdente / ma adesso sei preoccupata che possa vincere”. Cioè, chi è il protagonista di questa canzone? È un pazzo, un lunatico solitario, un suprematista bianco, un terrorista jihadista. E forse un parente stretto (perché no?) del pazzo di Pino Daniele (“se s’intosta a nervatura / metto tutti ’nfaccia ’o muro”). Leonard Cohen spiegò una volta che voleva scrivere qualcosa sul fascino perverso dell’estremismo, e della maniera in cui sa attirare la nostra attenzione, e perfino evocare la nostra energia. E così può bastare.
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