Il 23 maggio in Piemonte è precipitata una funivia: l’incidente ha causato quattordici morti. Il mattino dopo, l’ex direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli, parlando alla radio, ha avanzato l’ipotesi di un attentato poiché alcune delle vittime erano di origine israeliana. Il sospetto, come ammetterà lo stesso Mieli, poggiava però sul nulla.
Questo episodio dimostra quanto sia facile, anche per i più “insospettabili”, scivolare dall’analisi della realtà verso teorie di natura complottistica le quali, in genere, semplificano la complessità del reale, rassicurando chi le ascolta o costruendone l’identità.
Non stupisce che questo tipo di riorganizzazione del reale funzioni bene in un’epoca in cui, in occidente, le grandi ideologie laiche o religiose sono in crisi e i cittadini disorientati. Tuttavia, in Italia sussistono anche ragioni del tutto peculiari che in passato hanno spinto a cercare spiegazioni oltre l’apparenza.
Lo strumento del dubbio
Nel secondo novecento, in Italia, il dubbio è stato lo strumento che ha consentito di superare le versioni di comodo fornite dalle autorità su alcuni gravi fatti della storia del paese. Si pensi al rapporto tra mafia e politica, alla stagione del terrorismo, all’eversione neofascista, alle stragi che a cavallo degli anni settanta hanno provocato centinaia tra morti e feriti.
Su alcuni di questi avvenimenti si è fatta luce anche grazie al lavoro di controinchiesta di giornalisti, storici, familiari delle vittime e alcuni tra gli inquirenti più coraggiosi. Ma questo lavoro, spesso confermato dalla magistratura, è stato ostacolato e depistato da apparati dello stato non di rado risultati coinvolti in quegli stessi fatti.
“Io so i nomi dei responsabili …] ma non ho le prove”, scrisse Pier Paolo Pasolini nel 1974 sul Corriere della Sera. Del lavoro di controinchiesta di quei decenni, l’intervento di Pasolini – il quale, peraltro, pochi mesi dopo aver scritto quelle parole, fu ucciso in circostanze mai del tutto chiarite – è un’astrazione poetica, ma resta ancora oggi lo spartiacque tra due epoche.
Due epoche
La prima, quella in cui il dubbio ha condotto alla verità anche attraverso una ricostruzione dei fatti alternativa a quella ufficiale, ma poggiata su riscontri, e l’epoca attuale in cui ognuno, come ha scritto il politologo Marco Revelli “si fa giudice di tutto. Delle Big pharma con i loro vaccini, dei virus che sono una truffa per manipolarci, della tecnologia 5G e microchip idem, dei poteri forti Bill Gates e Soros che controllano il tutto, delle migrazioni governate dal piano Kalergi”. “Il sospetto”, secondo Revelli, “ha vinto”.
Il terreno di coltura per l’attuale proliferazione di teorie del complotto è individuato spesso nel coagularsi, a partire dai primi anni duemila, di una nebulosa movimentista attorno al comico Beppe Grillo, al suo blog e all’imprenditore Gianroberto Casaleggio. Da quella nebulosa nascerà il Movimento 5 stelle (M5s), forza politica schiettamente populista che in breve riesce a conquistare il centro della scena, diventando forza di governo.
Una mappa dello stato delle cose l’ha disegnata il quotidiano La Repubblica. Rispetto a qualche tempo fa, si legge, “cambiano le argomentazioni e le fasi politiche, ma il frame rimane lo stesso che in questi anni ha portato acqua al mulino del populismo nostrano, dal sovranismo leghista ai cinquestelle: il richiamo continuo alla libertà di pensiero e all’essere controcorrente per legittimare l’attacco alla scienza e alle competenze, l’odio verso le istituzioni e i ‘media mainstream’, la fascinazione per l’uomo forte”.
Non è però con il M5s che questo processo comincia. Si deve anzi tornare indietro agli anni novanta del novecento, quando il sistema politico venne travolto dalle inchieste sulla corruzione che spazzarono via la Democrazia cristiana e Partito socialista. Il Partito comunista invece dovette fare i conti con il crollo delle ideologie che portò al cambiamento del suo nome e a diverse scissioni. In breve, tutti i grandi partiti popolari sparirono dalla scena. La politica perse ogni tratto ideologico e le nuove forze politiche si identificarono sempre più con la figura del proprio capo. Si aprì così la porta al populismo. Ed è il tycoon televisivo Silvio Berlusconi ad aprirla, anticipando processi che poi verrano replicati in altri paesi.
È Berlusconi che, approdato alla politica, proclama per primo – e persino nelle aule parlamentari – il proprio ruolo di presidente del consiglio come direttamente legittimato dal popolo e non più dal voto di fiducia del parlamento, sebbene l’Italia sia una repubblica parlamentare. In seguito, i suoi avversari faranno lo stesso. Le conseguenze sono enormi. Il parlamento quasi sparisce dalla scena. La funzione legislativa viene esercitata sempre più dall’esecutivo per mezzo di decreti, accentuando un processo già in atto. Mutano i rapporti tra i poteri dello stato. La repubblica viene di fatto presidenzializzata mentre il sistema politico, fattosi bipolare, attinge apertamente ai toni del populismo.
Per di più, negli stessi anni si fa sempre più stretto il rapporto tra informazione e potere e, molti italiani, per informarsi si rivolgono altrove scoprendo internet ben prima dell’avvento dei social network, come dimostra il successo del blog di Grillo. Di fronte alla crisi di equilibri consolidati, i media e il sistema politico finiscono per irrigidirsi su posizioni di chiusura, anche di fronte a idee e opinioni legittimamente critiche. Questo atteggiamento in una parte della società acuisce un sentimento di frustrazione e distacco che a quel punto attende solo di essere raccolto.
È proprio quello che faranno formazioni come il M5s e la Lega, in grado di parlare alla pancia di un paese sempre più smarrito e arrabbiato.
Il complottismo, insomma, comincia a prosperare quasi come effetto collaterale della propaganda populista che però non è stata affatto un’esclusiva di formazioni come Lega e M5s. Al contrario, tutte le forze politiche – di ispirazione europeista e sovranista, e quindi anche Forza Italia, Pd e Fratelli d’Italia – in quanto organizzazioni carismatiche, hanno contribuito a quel genere di propaganda. Quei toni sono serviti a tutti per ricostruire la propria identità. E, arrivati a questo punto, il ritorno alla realtà non sembra più possibile senza il ritorno di una politica che sappia riassorbire la propaganda populista.
Questo articolo è uscito su VoxEurop.
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