I rapporti tra potere e informazione, soprattutto quella politica, continuano a farsi sempre più stretti e difficili. E diventa più complicato anche distinguere tra informazione e comunicazione, ossia tra il resoconto dei fatti e la versione di quegli stessi fatti che il potere preferisce sia diffusa. Sono tanti gli episodi che lo testimoniano, e che raccontano di come questo succeda in un contesto caratterizzato anche da una certa indifferenza, come se la china imboccata negli ultimi trent’anni, quelli della cosiddetta seconda repubblica, fosse uno sviluppo desiderabile.
Basterebbe dire, per esempio, di come da tempo non solo i politici, com’è logico che sia, ma anche i giornalisti intervengono nei talk show televisivi dividendosi per schieramento, di fatto non più analisti o commentatori ma politici anche loro, o comunque un pezzo del potere, senza che questo provochi sconcerto o almeno un qualche turbamento. Sembra anzi che questo stato di cose sia gradito a tutti, perché quel genere di dibattito sostiene gli ascolti, crea personaggi, consente l’illusione della partecipazione ai telespettatori, felicemente ridotti a un pubblico di tifosi.
Ma si possono anche ricordare le mancate conferenze stampa della presidente del consiglio, sia in Italia sia in Europa. Al loro posto ecco i cosiddetti punti stampa, con cronisti e telecamere per lo più in strada, che di fatto consentono al potere una gestione più facile del rapporto con la stampa, e delle domande dei giornalisti.
Nodi irrisolti
Va notato anche come sembri del tutto normale che l’ex capo ufficio stampa della presidenza del consiglio, Mario Sechi, assuma la direzione di un quotidiano, di fatto senza soluzione di continuità tra un incarico e l’altro. Presenza fissa in molti programmi tv, continua a sostenere le posizioni della presidente del consiglio. Il problema sta nel contesto in cui tutto questo accade, e nella sostanziale indifferenza che questo contesto mostra rispetto ai rischi di questo genere di sovrapposizioni, anche al di là delle intenzioni dei singoli, della professionalità e della buona fede.
Ci sono naturalmente anche casi capaci di attirare l’attenzione di molti. Succede per esempio quando le circostanze si sviluppano con ruvidità. È il caso della clamorosa censura nei confronti dello scrittore Antonio Scurati, che avrebbe dovuto leggere un suo monologo a Chesarà, una trasmissione di Rai3, in occasione del 25 aprile, anniversario della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. L’intervento però è saltato per decisione dell’azienda.
L’episodio è particolarmente significativo anche perché la censura è avvenuta su un terreno – il fascismo e soprattutto l’antifascismo – che rappresenta ancora oggi un nodo politicamente e culturalmente irrisolto per l’estrema destra al governo. A dimostrarlo, tra le altre cose, c’è anche l’ostinata opacità nel comportamento tenuto su fatti tragici della storia italiana recente. Inoltre, la censura di Scurati è arrivata proprio mentre era in pieno svolgimento un dibattito sulla possibilità – ventilata dalla destra – di escludere i componenti del governo dagli obblighi della par condicio, cosa che nell’immediato avrebbe dato un evidente vantaggio alla stessa destra nella campagna elettorale per le elezioni europee del prossimo giugno.
Mentre la voce del potere si rafforza, le altre quasi si perdono
Il ripetersi di episodi come questi ha da tempo creato un forte allarme sulla volontà della destra di intervenire sull’informazione. L’allarme è fondato, tuttavia ciò che sta succedendo non sembra un’assoluta novità. Tutt’altro. Per restare alla Rai, per esempio, quando Bruno Vespa era direttore del Tg1 affermò che il suo editore di riferimento era la Democrazia cristiana, perno per decenni del potere politico italiano. Era il 1992. Sono trascorsi trent’anni e poco o nulla è cambiato, forse solo i protagonisti di una storia che continua a ripetersi. Tanto che di recente Michele Serra ha potuto scrivere che l’azienda pubblica “è piegata da sempre a un vassallaggio umiliante nei confronti dei partiti, che sono di fatto i suoi padroni”.
Ciò a cui stiamo assistendo insomma non è una storia che comincia oggi, con Giorgia Meloni. Questa destra, semmai, sta pericolosamente incattivendo un sistema già praticato da altri, stringendo ancora di più il rapporto tra informazione e potere che, almeno nella sua fase più recente, ha cominciato a ristrutturarsi a partire dagli anni novanta del novecento, quando il potere che aveva al centro i partiti popolari entrò in crisi. Esaurite in quegli stessi anni le ideologie, trasformati i partiti in protesi dei leader, si affermò allora un bipolarismo senza idee che, ridotta la politica a un fatto personale, ebbe bisogno di nemici invece che di avversari.
L’informazione partecipò a questo processo, smettendo quasi programmaticamente di raccontare gli avvenimenti per occuparsi soprattutto del racconto del potere. Non a caso, la cronaca dovette cedere il passo sempre di più a nuovi generi giornalistici, primo tra tutti il retroscena politico, mentre le pagine riservate al racconto giudiziario cominciarono a riempirsi di trascrizioni di atti d’indagine. Sono generi che danno al lettore l’illusione di essere al centro della scena e di osservare l’azione quasi senza filtri.
Tuttavia, non è così. Spesso è il potere che parla. Infatti la cronaca – cioè il resoconto di un fatto – pretende distanza rispetto all’oggetto del proprio racconto, il retroscena molto meno. E lo stesso vale quando, nella cronaca giudiziaria, il lavoro d’inchiesta cede spazio alla pubblicazione di atti giudiziari che spesso danno conto solo della versione della pubblica accusa. E così, mentre inevitabilmente la voce del potere si rafforza, le altre quasi si perdono. E vacilla anche la capacità culturale di dissidenza rispetto al potere.
“Adesso c’è censura ma la censura ce la facciamo da noi”, disse il grande regista Mario Monicelli nel 2010, in una delle sue ultime interviste, concessa alla trasmissione Rai per una notte. Difficile dargli torto oggi. Dopo tanti anni, politica e informazione sono ancora lì, insieme, senza altra idea che non sia quella di abbattere l’avversario, ormai senza neanche saperne spiegare il perché, rinfacciandosi ogni giorno o quasi inchieste giudiziarie in un inutile esercizio di retorica. Non c’è altro, nessun progetto culturale, né un orizzonte politico che non coincida con la conquista del potere per il potere, unico obiettivo rimasto, di cui l’informazione sembra essere stata finora la vittima sacrificale.
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