È legittimo discutere di come il diritto al dissenso è esercitato in un paese democratico. Ma che una ministra come Eugenia Roccella lamenti di essere stata censurata da un gruppo di studenti è un fatto chiaramente ridicolo. È il potere che censura. È il potere che dispone, tra l’altro, della forza pubblica, e la utilizza a tutela dell’ordine che rappresenta. Il dissenso, invece, appartiene ai cittadini, e in democrazia la possibilità di esprimerlo è un diritto di libertà.
Chi oggi rappresenta il potere a quanto pare non la pensa così. E lo stesso si deve dire a proposito dell’informazione, visti i toni spesso molto critici usati per raccontare le proteste di studenti e giovani ambientalisti, sovrapponibili in modo inquietante ai toni usati dalle forze politiche. Ecovandali, gretini, barbari, ecorimbambiti sono solo alcuni dei modi con cui ragazzi e ragazze che si battono per le questioni ambientali sono stati chiamati da giornali e politici. Nel gennaio 2023, in occasione di una manifestazione di fronte al senato, il Tg1 addirittura non mostrò le immagini della protesta per sottolineare quanto fosse inaccettabile. “Quindi”, osservò Flavia Amabile sulla Stampa, “il Tg1 ha deciso che certe proteste sono accettabili e altre no”. Per far capire a che livello è arrivata la discussione pubblica sul dissenso in Italia, a qualcuno sarà tornato in mente il drammatico dibattito – in un contesto molto diverso – sull’opportunità o meno di pubblicare i comunicati delle Brigate rosse durante gli anni di piombo. Oggi per liquidare ogni questione su cose molto più innocenti non si discute nemmeno: basta il riflesso d’ordine d’un giornale o di un telegiornale, con buona pace della cronaca.
Il trattamento ricevuto dallo scrittore Antonio Scurati da parte della Rai e le testimonianze sulle pressioni e le censure che starebbero ricevendo i giornalisti della stessa azienda pubblica, alimentano la sensazione che certe decisioni siano prese anche su richiesta del potere. Ma probabilmente accadrebbe lo stesso in ogni caso: per conformismo, come spesso in passato, o per autocensura, come denunciava il regista Mario Monicelli. Questa, insomma, è l’acqua in cui tutti nuotano, spesso senza neanche accorgersene, come scrisse David Foster Wallace.
Le ragioni di questo progressivo irrigidimento sono molte. La principale sembra essere la mancanza di pensiero politico della classe dirigente – di destra e di centrosinistra – che ha governato questo paese negli ultimi trent’anni, e che ha ridotto lo scontro ideale a scontro personale. Oggi ne è un esempio la campagna elettorale sui social network a sostegno della presidente del consiglio Giorgia Meloni, costruita con toni che vorrebbero essere quelli dello sberleffo e che invece, nell’additare agli italiani singoli soggetti – come per esempio i giornalisti della Repubblica, che addirittura si vorrebbero far “piangere” – rivelano una certa inconsapevolezza della differenza tra ciò che è politica e ciò che non lo è.
D’altra parte, è inevitabile che quando ogni questione è trattata come un fatto personale, quello che dovrebbe essere un confronto tra avversari diventa uno scontro tra nemici. E se viene a mancare un orizzonte politico, diventa impossibile anche affrontare il conflitto in termini politici. Ogni critica, soprattutto se rivolta verso il potere, diventa così inaccettabile di per sé, anche al di là del contenuto. E questo prefigura un potere sempre più intrinsecamente autoritario, alla cui affermazione in molti – la destra ora, il centrosinistra prima – hanno dato un contributo.
Più che le proteste di ragazze e ragazzi, allora, a preoccupare dovrebbe essere un potere che mostra questo volto, e che tradisce la propria difficoltà nel riconoscere il dissenso come necessario in democrazia, mostrandosi addirittura sconcertato dall’esistenza stessa di un dissenso. Questo peraltro gli impedisce di gestire il conflitto sociale che il dissenso genera, se non ricorrendo a metodi securitari. Per di più, a ciò si somma una visione tribale della politica, fondata sulla fedeltà al capo e sull’aggressione verbale nei confronti del proprio prossimo, chiunque esso sia, basta che appartenga a un altro clan. Insieme a un potere del genere, dovrebbe inquietare anche un sistema dell’informazione che, a volte con zelo altre con inconsapevolezza, almeno in parte di questa cultura si è fatto interprete.
Comunque, tutto ciò dovrebbe preoccupare senz’altro più dei gruppi di ragazzi e ragazze che protestano – a volte con metodi discutibili, ma finora quasi sempre con relativa compostezza, considerato quel che si è visto in Italia negli anni passati – e che per il solo fatto di protestare sono rappresentati come teppisti o vandali tout court, cosa che peraltro consente di continuare a ignorare il contenuto delle loro proteste.
Significativamente, un trattamento molto più amichevole lo ricevette da almeno una parte della stampa il movimento delle Sardine, se non altro fino al suo dissolvimento. Ma quel movimento faticava a mettere in discussione lo stato delle cose, risultando tutto sommato simile al mondo al quale si rivolgeva, e con il quale non sembrava voler aprire un conflitto. Non aveva insomma un’anima politica. I ragazzi e le ragazze che si stanno battendo per l’ambiente, e contro quanto sta succedendo a Gaza, sono invece tra i pochi soggetti sociali rimasti a proporre un pensiero politico, immaginandosi dentro un orizzonte culturale diverso da quello presidiato dal potere. È proprio questo loro essere politici che preoccupa chi detiene il potere. E tutto sommato per loro è una buona notizia.
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