Giorgia Meloni ha vinto le elezioni europee. L’accelerazione iper populista, a tratti quasi peronista, impressa alla campagna elettorale dalla presidente del consiglio italiana, e l’aver convocato una sorta di referendum su di sé, hanno regalato a Fratelli d’Italia una percentuale di consenso perfino più ampia (quasi il 29 per cento) di quella delle scorse elezioni politiche.
Visto il contemporaneo successo sull’altro fronte del Partito democratico guidato da Elly Schlein (24 per cento), nel paese sembra tornare ad affermarsi una forma di bipolarismo. Circostanza che potrebbe suggerire alla destra di accelerare sul cosiddetto premierato, la riforma che vorrebbe introdurre l’elezione diretta del capo del governo.
Che uno degli esiti interni del voto europeo possa essere questo lo si capisce, tra l’altro, anche dalle parole con le quali Meloni ha commentato i risultati elettorali. “Il sistema”, ha detto nel corso della notte elettorale, quando lo scrutinio era ancora in corso, “sta diventando di nuovo bipolare. È una buona notizia: ci sono visioni che si contrappongono e su cui si chiede ai cittadini da che parte stanno. Oggi ci hanno detto che stanno dalla nostra parte”. Nel centrodestra, a guardare con realismo l’esito del voto, questa parte è soprattutto la sua.
Nonostante parole e sorrisi di circostanza, infatti, nella Lega tira un’aria decisamente pesante. Il voto non è andato bene (9 per cento), nonostante il traino atteso dalla candidatura del generale Roberto Vannacci, che però ha spostato la Lega ancora più a destra e ha alimentato nuovi malumori interni nei confronti della segreteria di Matteo Salvini, ormai sempre più diffusi ed evidenti.
L’ex segretario Umberto Bossi, per esempio, ha fatto sapere che avrebbe votato Forza Italia, forza che, numeri alla mano, sembra poter sopravvivere alla morte del fondatore Silvio Berlusconi. Una situazione tutto sommato speculare si è delineata nel centrosinistra, con un Pd in decisa crescita, una buona affermazione dell’Alleanza verdi sinistra e un Movimento 5 stelle che esce decisamente sconfitto.
Se questo è il quadro, allora Giorgia Meloni è sempre più saldamente al centro della scena, anche di quella internazionale. E cercherà di far valere il proprio peso politico anche in Europa, a partire dal rinnovo della presidenza della Commissione europea. Il diverso posizionamento di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia – basti pensare proprio alla successione della presidente della Commissione Ursula von der Leyen o alle prossime elezioni statunitensi – le richiederanno non pochi sforzi diplomatici sia sul fronte interno sia su quello internazionale. Qualcosa su come Meloni intenderà muoversi lo si comincerà a capire già nei prossimi giorni, quelli del G7 ospitato in Puglia.
È questo ciò di cui soprattutto si discute e si discuterà. Tuttavia, ci sono almeno due questioni che meriterebbero una riflessione. La prima riguarda il linguaggio della politica, ormai decisamente mortificante. Al di là dei toni rabbiosi e degli sguardi minacciosi a cui spesso ricorre, Giorgia Meloni in queste settimane ha spostato oltre il dicibile il livello dello scontro, alimentando con inutili asprezze e un modo di esprimersi a volte volgare, una campagna elettorale tra le più truci che si ricordino. Tutto ciò per eccitare i militanti, a cui ormai è esplicitamente indicato un nemico da colpire, com’è successo con certi manifesti che volevano essere goliardici ma invitavano a far piangere giornalisti e avversari.
Una politica sempre meno capace di idee e sempre più capace di produrre rabbia sembra però allontanare gli elettori, ed è questa la seconda questione su cui sarebbe opportuno concentrarsi. Il dato dell’affluenza questa volta è davvero sconcertante: alle 23 di domenica aveva votato solo il 49,69 per cento di chi aveva diritto. Quella di Meloni è insomma una vittoria nel deserto. Ed è questo il fatto più inquietante con cui oggi la politica dovrebbe fare i conti.
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