Perché i coronabond dividono i paesi dell’euro
La pandemia da Covid-19 ormai non è più solo un’emergenza sanitaria, è anche un’emergenza economica. Le misure di contenimento della diffusione del virus decise praticamente in tutto il mondo hanno rallentato, se non bloccato completamente, gran parte delle attività produttive, mettendo in seria difficoltà le aziende e chi ci lavora. Una recessione globale è ormai certa, e sarà molto dura: la sua gravità effettiva dipenderà da quanto durerà la pandemia e da quanto sarà difficile uscirne.
Per questo i governi e le banche centrali di tutti i paesi hanno deciso misure straordinarie che prevedono immissione di liquidità nel sistema e l’aumento consistente del debito pubblico. L’ha fatto subito la Cina, il paese colpito per primo dal virus e anche quello che sembra essere arrivato alla fine del tunnel. L’hanno fatto gli Stati Uniti: la loro banca centrale, la Federal reserve (Fed) ha messo a disposizione liquidità illimitata per comprare obbligazioni e finanziare banche e imprese, mentre il governo ha approvato un piano di aiuti straordinario da duemila miliardi di dollari.
Ha deciso di muoversi nella stessa direzione anche l’Unione europea, e in particolare lo hanno fatto i paesi dell’eurozona. In questo caso, però, le cose stanno andando in modo diverso, soprattutto a causa dei contrasti tra i paesi che hanno i conti pubblici a posto e quelli indebitati.
Il 18 marzo anche la Banca centrale europea, come la Fed, ha lanciato prontamente un programma di acquisto di titoli di stato e obbligazioni, il Pandemic emergency purchase programme (Pepp), attraverso il quale spenderà 750 miliardi di euro entro la fine del 2020. Il 20 marzo, inoltre, la Commissione europea ha sospeso i vincoli imposti ai bilanci pubblici degli stati membri dal patto di stabilità e crescita, di fatto dando la possibilità ai governi nazionali di indebitarsi come ritengono più opportuno per affrontare l’emergenza.
Risorse a sufficienza
I problemi nascono proprio qui. Paesi come la Germania e i Paesi Bassi, che hanno un basso livello d’indebitamento e un bilancio pubblico in attivo, hanno risorse a sufficienza per affrontare la crisi e comunque possono indebitarsi a tassi molto bassi sui mercati. Berlino, per esempio, ha varato il più grande piano d’aiuti della storia tedesca, che tra l’altro prevede fondi fino a 500 miliardi di euro per la stabilizzazione dell’economia.
Lo stesso non si può dire per i paesi più indebitati, tra cui l’Italia, che riceveranno un sostanzioso aiuto dalla Bce, pronta a comprare i loro titoli di stato attraverso il Pepp, ma non possono permettersi di aumentare ulteriormente il proprio debito pubblico e comunque temono di dover pagare interessi troppo alti sui mercati finanziari.
È per questo che all’interno dell’eurozona è nato il dibattito sull’opportunità di ricorrere a metodi di finanziamento più “solidali”, cioè la possibilità di emettere titoli di debito garantiti da tutti i paesi dell’area – i cosiddetti “coronabond” – oppure quella di ricorrere ai prestiti a tassi agevolati del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), il fondo salvastati, ma senza mettere sotto sorveglianza i debitori con misure per il risanamento dei conti. Ne hanno fatto richiesta nove paesi, tra cui l’Italia, la Francia e la Spagna.
Non conviene a nessuno abbandonare al proprio destino una parte dell’eurozona
Ma diversi vertici tra i leader dell’eurozona hanno messo in evidenza una profonda spaccatura. La Germania e i Paesi Bassi, in particolare, rifiutano entrambe le soluzioni: per il governo tedesco e quello olandese sarebbe difficile farle digerire ai loro elettori, convinti che i risparmi messi faticosamente da parte non possano essere usati per paesi che hanno da decenni condotte finanziarie discutibili.
Sono esplose le polemiche. I paesi “virtuosi” sono accusati di non essere solidali, e replicano sostenendo che alcuni governi non hanno imparato dagli errori del passato. In una lettera al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung, alcuni presidenti di regione e sindaci italiani hanno accusato i Paesi Bassi di “mancanza di etica e solidarietà” e hanno ricordato al governo olandese che da anni sottrae risorse agli altri paesi europei attraverso le agevolazioni fiscali concesse alle multinazionali. Ai tedeschi, invece, hanno ricordato l’accordo di Londra del 1953 con cui al loro paese fu condonato parte del debito estero.
Un pericolo mortale
Comunque i leader europei continuano a trattare. Il 1 aprile la Commissione europea ha proposto la creazione di un fondo per sostenere i governi particolarmente colpiti dalla crisi, sottolineando l’apporto solidale di tutti i paesi. Misure più incisive, probabilmente, saranno annunciate al prossimo vertice dei leader europei previsto per la prossima settimana.
Non conviene a nessuno abbandonare al proprio destino una parte dell’eurozona. I paesi “virtuosi” probabilmente sanno bene che non trarrebbero grandi benefici dal fatto che i loro vicini e alleati sono ridotti sul lastrico. Allo stesso tempo, chi come l’Italia si è fatto trovare impreparato di fronte a una crisi tanto grave quanto imprevista non può dare la colpa agli altri, ma dovrebbe mettere in discussione la gestione delle proprie finanze.
Questa nuova crisi ha fatto venire fuori ancora una volta il vero grande difetto dell’unione monetaria: quello di avere in comune la moneta, ma non il bilancio. Una politica di bilancio comune permetterebbe di intervenire in modo più tempestivo ed efficace quando si verifica uno shock. Anche perché, ha scritto l’ex presidente della Bce Mario Draghi sul Financial Times, “livelli molto più alti di debito pubblico diventeranno una costante nelle nostre economie”.
Inoltre un’unione più politica renderebbe più solido il progetto europeo, visto che i paesi in difficoltà potrebbero essere tentati dalle promesse di superpotenze come la Cina. Come ha dichiarato Jacques Delors, ex presidente della Commissione, la mancanza di solidarietà è “un pericolo mortale per l’Unione europea”.