Un’auto distrutta dal missile di un drone americano nella provincia di Hadramawt, in Yemen, nell’agosto del 2012 (Khaled Abdullah, Reuters/Contrasto).

Il 22 ottobre Amnesty international e Human rights watch hanno pubblicato dei lunghi rapporti sugli attacchi degli Stati Uniti con i droni in Pakistan e Yemen. Le due organizzazioni hanno esaminato le prove raccolte sul campo riguardo a decine di attacchi avvenuti negli ultimi anni, concludendo che Washington ha ripetutamente violato il diritto internazionale e i diritti umani.

Ecco una parte del comunicato di Amnesty Italia che riassume bene i punti critici dei rapporto sul Pakistan:

Amnesty International ha esaminato i 45 attacchi accertati avvenuti tra gennaio 2012 e agosto 2013 nel Nord Waziristan, la regione del Pakistan più colpita dai droni. Il rapporto solleva forti interrogativi su violazioni del diritto internazionale che potrebbero costituire esecuzioni extragiudiziali o crimini di guerra. Anche se secondo la versione ufficiale si trattava di “terroristi”, le ricerche di Amnesty International indicano che le vittime non erano coinvolte in combattimenti né ponevano alcuna minaccia alla vita altrui.

Il diritto internazionale vieta le uccisioni arbitrarie e limita l’uso legittimo della forza letale intenzionale a situazioni eccezionali. Nei conflitti armati, solo i combattenti e coloro che prendono direttamente parte alle ostilità possono essere colpiti. Al di fuori dei conflitti armati, la forza letale intenzionale è legittima solo quanto strettamente inevitabile al fine di proteggere contro un’imminente minaccia alla vita. In alcune circostanze, un’uccisione arbitraria può costituire un crimine di guerra o un’esecuzione extragiudiziale, che sono crimini internazionali.

Allora perché gli Stati Uniti continuano a usare i droni? Quali sono le argomentazioni di Washington per giustificare gli attacchi? Qual è la base giuridica?

In sostanza, il governo americano è convinto di essere autorizzato a usare i droni perché gli Stati Uniti stanno combattendo una guerra su scala globale contro Al Qaeda e altre organizzazioni terroristiche associate (come i taliban al confine tra Pakistan e Afghanistan e Al Qaeda nella penisola araba, in Yemen). Nemici non convenzionali contro cui gli strumenti tecnologici tradizionali e concetti come quello di “conflitto armato” (di cui parla Amnesty nel suo rapporto) sono inutili e inapplicabili.

Questo punto di vista è stato riassunto bene da Harold Koh, il principale consulente legale dell’amministrazione Obama, nel marzo del 2010: “Gli Stati Uniti sono in guerra con Al Qaeda e con i taliban, in risposta agli orribili attacchi dell’11 settembre. In questo contesto potrebbero decidere di usare la forza in accordo con il diritto all’autodifesa sancito dal diritto internazionale”. Secondo Koh questo principio si applica anche “alle operazioni letali condotte con i mezzi a pilotaggio remoto”.

Ad aprile del 2012 John O. Brennan, all’epoca consigliere della Casa Bianca per l’antiterrorismo e attuale direttore della Cia, ha definito la strategia “legale, etica e saggia”.

Le promesse di Obama

La base giuridica di questo approccio è l’Authorization for the use of military force against terrorists (l’Autorizzazione all’uso della forza militare, Aumf), un provvedimento approvato dal congresso degli Stati Uniti il 14 settembre del 2001, tre giorni dopo l’attacco al World Trade Center. Questa norma concede al presidente il potere di “usare tutti i mezzi necessari e appropriati” per perseguire ed eliminare i terroristi che hanno “pianificato, autorizzato, commesso o facilitato” gli attacchi del 2001, e che quindi costituiscono un serio pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti.

Washington chiama in causa anche il diritto all’autodifesa sancito dal diritto bellico.

Secondo i consulenti legali del governo americano, gli attacchi con i droni non violerebbero neanche il principio della distinzione tra militari e civili, perché gli estremisti islamici si nascondono tra i non combattenti proprio per rendere gli attacchi più difficili, quindi la responsabilità della morte dei civili sarebbe loro e non del governo americano.

Queste argomentazioni sono confutate dagli analisti, dagli attivisti, dai politici e dai militari (pochi) che si oppongono all’uso delle armi robotiche, negli Stati Uniti e in Europa. Prima di tutto, contestano il diritto all’autodifesa invocato dagli Stati Uniti. Il diritto bellico afferma che tutte le nazioni hanno il diritto di difendersi da un attacco imminente. Ma Washington non può dimostrare che gli estremisti che si trovano nel nord del Pakistan o in Yemen costituiscano una minaccia imminente alla sicurezza del territorio americano.

Per quanto riguarda l’Aumf, l’idea che gli Stati Uniti compiano degli omicidi mirati in paesi stranieri (a volte senza chiedere il permesso o addirittura senza avvisare i governi locali) in risposta agli attentati dell’11 settembre 2001 è quanto meno discutibile: sono passati 12 anni e tante cose sono cambiate. Per gli Stati Uniti, che hanno eletto un nuovo presidente che ha stravolto le scelte politiche e militari del suo predecessore, e anche per Al Qaeda, che da organizzazione terroristica centralizzata si è trasformata in una rete di piccole cellule autonome ma in comunicazione tra loro, presenti in molti paesi dell’Africa e del Medio Oriente.

Nel suo rapporto, Amnesty International attacca Obama anche per non aver tenuto fede alle promesse fatte nel suo discorso alla National defense university, nel maggio scorso. In quell’occasione il presidente degli Stati Uniti si era impegnato a:

  • trasferire gradualmente il potere decisionale sugli omicidi mirati dalla Cia all’esercito, per garantire più trasparenza (le operazioni smetterebbero di essere segrete e sarebbero sottoposte almeno in parte alla supervisione del parlamento).

  • Mettere fine ai signature strikes, gli attacchi che sono realizzati in base alle attività che una persona sta svolgendo e non perché se ne conosce l’identità.

  • Dare il via libera agli attacchi solo se il potenziale obiettivo rappresenta una minaccia imminente alla sicurezza dei cittadini americani.

A parte qualche miglioramento sui

signature strikes, che comunque sono in calo da qualche anno, per il resto Obama ha fatto oggettivamente poco. Anche perché, appunto, il concetto di ” minaccia imminente alla sicurezza” è molto difficile da dimostrare.

Un dibattito infinito

Da tutto questo si capisce che la questione giuridica è quella più scivolosa e controversa quando si parla di droni. Da una parte c’è il governo statunitense, minacciato (o convinto di esserlo) da cellule terroristiche – spesso singole persone – attive in vari paesi del mondo; dall’altro ci sono dei principi di diritto elaborati non più tardi della seconda guerra mondiale. Principi che si cerca di applicare a un modo di fare la guerra completamente diverso da quelli del passato.

Per il futuro, la cosa più probabile è che si verifichi lo scenario proposto da Mark Bowden nel suo articolo Killing machines (Internazionale 1020). Gli Stati Uniti continueranno a usare i droni per colpire ed eliminare sospetti terroristi in Pakistan, Yemen e Somalia. Probabilmente gli attacchi diminuiranno, seguendo la tendenza attuale. Forse Washington accantonerà l’Aumf, il provvedimento approvato subito dopo l’11 settembre, e cercherà una nuova base giuridica per giustificare le operazioni. Magari Obama riuscirà a ridimensionare il ruolo della Cia e a dare più poteri al Pentagono, garantendo un minimo di trasparenza. Ma il dibattito internazionale sulla legittimità dei droni non finirà. Continuerà a essere aspro e coinvolgerà persone su posizioni spesso inconciliabili. Perché in fin dei conti si tratta di omicidi arbitrari contro “sospetti” terroristi in paesi stranieri, ordinati da un governo che il più delle volte agisce in modo unilaterale e che spesso ignora il contesto sociale, politico e militare delle operazioni.

Alessio Marchionna lavora a Internazionale dal 2009. Editor delle pagine delle inchieste, dei ritratti e dell’oroscopo. È su twitter: @alessiomarchio

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