Sul marciapiede di fronte a Las Manitas c’è un cowboy. Ha la barba brizzolata, un cappello di paglia e degli occhiali da sole a fascia. Porta un top aderente e scollato, imbottito in modo molto convincente con delle protesi spettacolari. Oltre agli stivali con gli speroni, l’unica altra cosa che indossa è un costume a slip rosa fluorescente. Anche questo imbottito in modo molto convincente. Siamo ad Austin, e qui i cowboy non sono come quelli nel resto del Texas.
Las Manitas è aperto solo per colazione e per pranzo, ma ha la reputazione di essere il miglior ristorante Tex-Mex di tutto lo stato. Due grossi ventilatori tentano invano di spostare l’aria pesante e le gambe mi si appiccicano alla sedia di pelle verde. Sul malandato linoleum beige ci sono dei solchi in cui si vede il cemento, sulla rotta del frenetico viavai dei camerieri. Piomba sul mio tavolo una spremuta di arancia, in un boccale di plastica grande come un cestino della spazzatura.
Sul menu ci sono uova rancheros, chilaquiles (verdi o rossi) e plato de chorizo. I fagioli sono solo neri o fritti. Chiedo a un texano se qui si mangiano quelli rossi: “Bleah, che schifo!”. A quanto pare i fagioli rossi sono un’interpretazione britannica della cucina messicana, come la maionese sul sushi o le lasagne con le patatine. Ordino migas especiales con hongos, che sarebbero uova sbattute con striscioline di tortilla e funghi, ricoperte da un mare di formaggio e condite con una salsa di chili piccante.
Come contorno c’è una distesa di fagioli neri e un meraviglioso guacamole, leggerissimo, condito con lime e coriandolo. È un piatto perfetto per la prima colazione: rassicurante, genuino e abbastanza piccante da riuscire a svegliarti. Las Manitas, che vuol dire piccole mani, in gergo significa “gruppo di amici”. E a dirigere il locale è proprio un gruppo di amici messicani che, da studenti, non riuscivano a trovare nei supermercati locali le cose che volevano mangiare.
È un posto molto informale. Per andare al bagno, si passa per la cucina. Sul soffitto ci sono dei pentoloni anneriti appesi con delle grosse catene. Mi trovo davanti a due porte su cui ci sono due cartelli: su uno c’è scritto “sì” e sull’altro “no”.
Scelgo il sì e mi ritrovo per strada. Il termometro indica 42 gradi. Il cowboy di prima non c’è più e, con la camicia e i pantaloni appiccicati alla pelle, mi chiedo se gli slip e i top sbracciati siano semplicemente una scelta di praticità.
Internazionale, numero 614, 27 ottobre 2005
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