Sono a cena a Osaka e mi affido completamente al gusto impeccabile delle nostre ospiti giapponesi. Akiko e Fukima ci traducono il menù: incomprensibili ideogrammi dipinti su tavolette di legno appese alla parete. Sperlani, sashimi, fugu. Fugu?! Ma non è il pesce palla?
Lungo il tavolo si diffonde una certa agitazione. La paura si muove nell’aria come un colibrì tossico intenzionato ad avvelenare il nostro spirito d’avventura. Ma non lo sapete che una porzione di fugu su cento è mortale?
Ormai l’abbiamo ordinato. Il sashimi è, come sempre, splendido: fettine di pietra preziosa adagiate su una nevicata di rafano daikon grattugiato. È stata usata solo la superficie della radice, quella leggera e rinfrescante, mentre la punta finale è la parte piccante. Prima di mettere in bocca il pesce lo avvolgiamo nello shiso, un’erba dolce dal profumo di limone che somiglia un po’ alle foglie di ortica.
Quasi non mi accorgo del fatto che ormai uso le bacchette con disinvoltura, e non più con la rigidità di un bambino che prende in mano la matita per la prima volta. Nel menù c’è solo un piatto occidentale, giusto per la forma. Ma non è la solita insalata niçoise: le foglie di lattuga sono guarnite con spaghetti di patate fritti, salmone crudo e un uovo in camicia freddo. La fiamma dell’iwatani – il tipico fornelletto da tavola – viene accesa sotto al nabe, un piatto a base di cavolo, germogli di soia e manzo grasso e crudo.
In Giappone il cibo ha un importante ruolo sociale: abbiamo tutti gli occhi puntati sul nostro bassista che gira sorridente il miscuglio nella pentola spiegandoci la sua tecnica. Poi arrivano i sishamo, minuscoli sperlani interi fritti, con i loro corpi gonfi e gravidi contorti dal calore. Basta un morso per rivelare le uova di un colore giallo pallido, così pigiate e piccole da sembrare polvere, ma con un sapore deliziosamente aspro. Fukima mi racconta che quando era bambina i genitori le facevano mangiare sishamo in quantità, perché il calcio contenuto nelle fragili lische le facesse crescere delle gambe lunghissime.
Finalmente arriva il fugu e intorno al tavolo cala un silenzio denso. Ne prendo un cubetto, che è stato prima passato nel pan grattato e poi fritto. Mastico. Mando giù. È buono, ma non eccezionale come dovrebbe essere, visto il presunto rischio nel mangiarlo. La Findus produce qualcosa di simile. A che prezzo la morte? Un bastoncino dal tavolo del capitano?
Internazionale, numero 634, 23 marzo 2006
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