A irritarmi, ancor più della domanda, è stato lo sguardo vuoto, come di chi non capisce: “Ma non ci sono israeliani che si oppongono alle politiche del governo?”.
“Stai calma”, mi sono detta, guardando i miei vicini, due sostenitori di Hamas. “Hanno il diritto di dubitare, mostrarsi ostili e fare domande. E io ho la possibilità di spiegare”.
Non era una visita di cortesia, ma uno dei tanti incontri che ho tenuto nelle ultime settimane con i simpatizzanti della formazione islamica. Seduta sul divano, ho bevuto prima tè alla menta e poi caffè arabo, servito da una delle tre figlie. Mentre parlavamo, nella stanza c’erano solo i fratelli minori, molto più giovani.
La mia condizione privilegiata di ebrea mi aveva permesso di sbrigare qualche commissione per loro: spedire una lettera a un parente in carcere in Israele o pagare una multa in un ufficio postale israeliano (in una delle tante strade in Cisgiordania controllate da Israele). Speravo quindi che fossero disposti a parlarmi di come il conflitto tra Hamas e Al Fatah influisce sulle loro vite. Invece ho dovuto ascoltare un lungo sermone sull’occupazione israeliana e sull’odio che suscita, fino ad arrivare alla famosa domanda.
Cos’era che mi aveva irritato? La loro ignoranza di tutte le lotte degli attivisti, pochi, certo, ma molto impegnati? O il loro “rifiuto di sapere”, visto che erano entrambi persone istruite? Oppure avevano risvegliato il mio latente orgoglio israeliano e volevo proteggere l’onore di una piccola minoranza di miei connazionali? O era solo la giornalista che è in me a fremere, impaziente di avere una risposta?
Qualunque sia la risposta, il giorno dopo, parlando con un amico islamista di Gaza, ho apprezzato il suo ragionamento decisamente più articolato: “A volte in tv o su internet vengo a sapere di qualche protesta israeliana contro l’occupazione, e mi chiedo: se fossimo noi a occupare Israele, il nostro popolo avrebbe il coraggio di opporsi?”.
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