Gli stranieri che arrivano a Gaza sono sorpresi di scoprire che i mercati e i supermercati sono pieni e colorati. Certo, nei campi profughi e nei quartieri più poveri le scorte sono molto più ridotte, ma non è così in ogni parte del mondo? Non è sempre la classe sociale a determinare la qualità e la quantità dei prodotti alimentari?

Eppure i mezzi d’informazione non fanno che occuparsi del blocco israeliano e della penuria di cibo a Gaza. Due settimane fa Ha’aretz ha scritto che il senatore statunitense John Kerry, in visita a Gaza, aveva saputo che Israele non fa entrare spaghetti e lenticchie.

A differenza del riso, questi prodotti non sono considerati essenziali e non rientrano quindi tra quelli che possono attraversare la frontiera. Ha’aretz ha dedicato a quest’assurdità il titolo di prima pagina e un editoriale. Mi sono mangiata le mani. Anch’io avevo saputo degli spaghetti e delle lenticchie, probabilmente dalla stessa fonte di Kerry.

Ma sapevo anche che gli scaffali erano ancora pieni di spaghetti e di lenticchie e che un alto funzionario israeliano aveva promesso di risolvere il problema.

L’aspetto più grave del blocco israeliano non riguarda il cibo, ma la libertà di movimento e il divieto di entrata delle materie prime. Se ho scartato questa notizia, è perché me l’ha chiesto la mia fonte: “Vogliamo mantenere buoni rapporti con l’esercito israeliano”.

Temeva che lo scandalo potesse provocare una vendetta. Ho rinunciato a molte buone storie per questo motivo. Le fonti temono di essere identificate, perché Israele potrebbe rifiutargli il permesso di viaggio o revocargli quello di lavoro (per gli stranieri).

Tre mesi fa ho pubblicato un elenco di prodotti che le Nazioni Unite non potevano far entrare a Gaza: manici di scopa e strumenti musicali, per esempio, e altre decine di prodotti necessari ma non commestibili. La notizia non è arrivata in prima pagina e nessuno l’ha rilanciata. Ma si capisce, non sono una senatrice statunitense.

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