“Ci avete massacrato”, ha detto la madre di Bassam. Ce l’aveva con noi ebrei. “Massacrare” è il verbo che, secondo i racconti sionisti, i palestinesi usavano negli anni trenta e quaranta (“Massacrate gli ebrei”, gridavano nelle loro manifestazioni contro l’invasione straniera).

Bassam è un vecchio amico del campo profughi di Jabaliya. Non vedevo la sua famiglia da almeno sei anni e, quando sono arrivata, la madre mi è venuta incontro, mi ha preso le guance tra le mani, mi ha baciato ripetutamente e mi ha detto: “Ci avete massacrato”.

Il naturale senso dell’umorismo dei palestinesi mi fa morire. “Mi spiace non poterti ospitare come si deve”, mi ha detto una volta Hussein al Aidy, un vecchio conoscente. All’inizio della seconda intifada, nel 2001, la sua casa è stata occupata dall’esercito israeliano.

Per settimane la sua famiglia è dovuta rimanere lì, senza poter uscire né ricevere visite. Un giorno sono riuscita ad andarli a trovare, e ho scritto un articolo. All’epoca mi era sembrata l’esperienza peggiore che potesse capitare con l’esercito israeliano.

Il 4 gennaio di quest’anno un amico mi ha telefonato per dirmi che la casa di Hussein era stata bombardata con la famiglia dentro. C’erano trenta persone, tra cui dei feriti, ma l’esercito non permetteva all’ambulanza di avvicinarsi.

Due donne anziane e tre bambini erano feriti, non avevano medicine e gli israeliani continuavano a sparare. Alla fine sono fuggiti in una baracca lì vicino, senza cibo e con solo l’acqua del pozzo da bere. Sono usciti una settimana dopo, divisi in due gruppi.

Hanno camminato per tre chilometri, fino alle ambulanze, senza potersi fermare. “Altrimenti spariamo”, dicevano i soldati.

Dopo l’offensiva sono tornati a casa. L’edificio, bombardato un paio di giorni prima del cessate il fuoco, era un cumulo di macerie. Ora i membri della famiglia sono sparsi un po’ ovunque, da parenti o in affitto. La vecchia madre di Hussein è l’unica che è rimasta: da settimane dorme in un vecchio autobus arrugginito.

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