“Amira, quanto sei brutta. I tuoi genitori sono cani?”. La settimana scorsa ho ricevuto circa venti email, e questa, spedita da una certa Bea Lewis, è una delle due a cui ho risposto. Nell’altra mi si chiedeva (educatamente) perché sono favorevole alle sofferenze degli ebrei. Ho risposto all’autore della domanda che evidentemente non aveva letto il mio articolo. A Bea Lewis invece ho risposto: “Quando i nazisti hanno chiuso mia madre a Bergen Belsen e mio padre nel ghetto di Shorgorod, in Ucraina, li consideravano molto meno che cani”.
La causa di quest’ondata di odio (ma anche di alcuni messaggi di solidarietà) è un mio articolo sul diritto di ogni popolo oppresso a resistere (e a lanciare pietre, come atto reale e simbolico di lotta). Per due giorni l’articolo è stato al centro dell’attenzione dei giornali di destra e di molte trasmissioni radio e tv. Ho rifiutato tutte le richieste d’intervista. “Tutto quello che ho da dire è nel mio articolo”, ho spiegato.
Ormai la tempesta è passata, e anche la richiesta di due organizzazioni di destra di processarmi per istigazione alla violenza è caduta nel vuoto. All’inizio ero sorpresa per le reazioni così forti, perché non è la prima volta che scrivo queste cose. Poi un mio amico mi ha spiegato: “È la prima volta che lo scrivi nella prima frase, l’unica che leggono”. Riflettendoci meglio, mi sono stupita del mio stupore iniziale: ogni gruppo dominante considera la sua violenza come parte dell’ordine naturale delle cose.
Traduzione di Andrea Sparacino
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