Dopo cinque giorni intensi a Varsavia, sono salita a bordo di un aereo. La donna seduta accanto a me, di circa 65 anni, mi ha accolta con un sorriso. Era ebrea, con un evidente accento russo.

Per qualche motivo l’aereo è partito in ritardo. Nell’attesa la mia vicina ha cominciato a farmi una serie di domande, senza curarsi del libro che tenevo in mano. Non volevo essere scortese e così ho risposto alle sue domande: da dove vieni, cosa hai fatto in Polonia, com’era il tempo, dove vivi. A quel punto mi sono chiesta se dovevo mentire o meno. Rispondere Gerusalemme sarebbe stata una bugia innocente, ma poi avrei dovuto continuare a mentire. E così ho confessato che vivo a Ramallah.

Gli occhi della donna si sono illuminati. Voleva saperne di più: come mi trattano i palestinesi, se la mia scelta è ideologica, se ho amici. Poi è intervenuto l’uomo seduto accanto a lei: “Lasci che glielo dica, gli arabi vivono meglio di noi”. L’ho interrotto bruscamente: “Non mi dica come vivono gli arabi, finiamola qui”. Poi l’uomo ha cominciato a discutere con la mia vicina, in russo. A un certo punto si è alzato e ha chiamato la hostess: “Voglio cambiare posto”. La ragazza gli ha chiesto se si sentisse male. “Mi rifiuto di stare seduto dove si parla di occupazione”. Per fortuna c’erano posti liberi e l’uomo, allontanandosi, ha gridato: “Onore a Tsahal” (l’esercito israeliano).

La donna si è scusata e ha confermato i miei sospetti: l’uomo è suo figlio, ha 41 anni e non sta bene.

Traduzione di Andrea Sparacino

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