Venerdì scorso, dopo la lezione di musica dei bambini, siamo andati a fare una passeggiata. Eravamo io e un’amica con suo figlio e un altro bambino. Ho proposto di raggiungere un villaggio vicino e proseguire a piedi lungo i sentieri degli agricoltori. I bambini si sono stancati della natura dopo neanche dieci minuti. Anche la mia amica ha confessato di aver faticato ad abituarsi ai paesaggi della Cisgiordania, ma alla fine ha imparato ad amarli (nata da rifugiati palestinesi in Siria, ha vissuto in Libano e in Europa orientale).
Io invece sono sempre stata innamorata della bellezza dei mandorli pronti a fiorire e degli ulivi argentei della regione. “Non ci sono colonie”, ha notato con stupore la mia amica. Era la prima volta che visitava la zona, circa venti chilometri a nord di Ramallah. “È per questo che ti ho portato qui”, le ho risposto. L’assenza dell’architettura coloniale (aggressiva e invadente) aumentava il senso di pace.
A cancellare quel momento bucolico ci ha pensato la dura realtà. Da settimane la mia amica partecipa alle proteste a Ramallah contro l’assedio delle forze governative al campo profughi palestinese di Yarmuk, in Siria, e pensa continuamente alle persone che stanno morendo di fame. “Ci stiamo avvicinando a un’altra Nakba (l’esodo dei palestinesi nel 1948)”, mi ha detto con la certezza di un matematico.
A quel punto siamo tornati a casa, perché suo figlio aveva una lezione di
dabke (una danza popolare) e lei doveva preparare una torta.
Traduzione di Andrea Sparacino
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