Mentre scrivo queste righe, il 5 novembre, tutto è tranquillo a Ramallah, capitale de facto dell’Autorità palestinese. Ma nelle strade di Gerusalemme, la capitale teorica, che si trova a quindici chilometri di distanza, i giovani palestinesi si scontrano con la polizia israeliana. È uno dei maggiori successi della politica di separazione portata avanti da Israele negli ultimi anni: quello che succede in una regione palestinese non influisce sulle altre. A restare inalterata è soprattutto la spina dorsale politica, che a Ramallah riceve il denaro dei donatori e si limita a mantenere l’ordine.
Gerusalemme Est è in fiamme ormai da mesi, da quando una banda di ebrei ha bruciato vivo un giovane palestinese. Ma è da decenni che i palestinesi di Gerusalemme sono trattati da Israele come ospiti indesiderati nella loro stessa città. Non parlo solo della povertà e della disoccupazione. Non parlo solo della pretesa israeliana di dominare la Spianata delle moschee e della costruzione di insediamenti ebraici all’interno della città. È tutto questo insieme e molto altro: una violenza di stato deliberata che punta a rendere la vita impossibile alla popolazione.
La violenza di stato prosegue senza che se ne parli. Solo la violenza individuale dei palestinesi fa notizia. Questi episodi offrono alla destra israeliana una ghiotta opportunità per accusare l’Autorità palestinese di alimentare le violenze a Gerusalemme. Peccato che questa, per scelta di Israele, sia del tutto assente dalla città.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato il 7 novembre 2014 a pagina 28 di Internazionale, con il titolo “Distanza incolmabile”. Compra questo numero | Abbonati
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