La settimana scorsa l’International New York Times ha dedicato qualche riga all’ultimo rapporto della Banca mondiale sull’economia della Striscia di Gaza, sottolineando il più alto tasso di disoccupazione al mondo (il 43 per cento, mentre quella giovanile arriva al 60 per cento).
“Da quando è cominciato il blocco israeliano nel 2007, il pil si è dimezzato, il settore manifatturiero è crollato e le esportazioni sono scomparse”, si legge nel rapporto. “Gran parte della popolazione vive in condizioni di povertà”, ha dichiarato Steen Lau Jorgensen, il rappresentante della Banca mondiale nella regione.
È evidente che questa situazione è dovuta alle restrizioni imposte da Israele (e alle guerre). Ma anche stavolta le parole non si tradurranno in azioni politiche. I leader israeliani sanno bene che i donatori saranno sempre pronti a inviare aiuti umanitari alla più grande prigione del mondo, per mantenerla sull’orlo dell’abisso senza farla sprofondare.
“Non c’è dubbio sul fatto che ci sarà un’altra guerra, la quarta, e poi anche la quinta e la sesta”, mi ha detto al telefono F, un’amica palestinese. Ho provato a spiegarle che nessuna guerra è inevitabile, ma non è servito a niente. “Sono terrorizzata, non abbiamo ancora finito di pagare i debiti per le riparazioni alla nostra casa, danneggiata durante i primi tre conflitti”, ha proseguito. “Per fortuna due dei nostri figli sono riusciti a trasferirsi in Turchia. Spero che non tornino mai più”.
Traduzione di Andrea Sparacino
Questo articolo è stato pubblicato il 5 giugno 2015 a pagina 27 di Internazionale, con il titolo “La prossima guerra”. Compra questo numero | Abbonati
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