“E così anche tu digiuni?”, mi ha detto F sorridendo mentre facevamo la fila per prendere la tradizionale ciotola di zuppa che si mangia durante il Ramadan. “Digiuno come fai tu”, gli ho risposto ammiccando. In fila con noi c’erano anche dei cristiani e degli atei proclamati, quindi non ci sentivamo soli. Insieme a un’altra cinquantina di persone, eravamo stati invitati da un’organizzazione internazionale che opera nei Territori occupati a un iftar – il tradizionale pasto di rottura del digiuno – in uno degli hotel chic di Ramallah.
C’erano anche degli esponenti di Hamas, seduti fianco a fianco con alcuni responsabili della sicurezza dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp). Sui volti di quelli di Hamas non c’era traccia di astio, anche se nell’ultimo mese l’Anp ha fatto arrestare decine di militanti del loro partito. Erano presenti anche alcuni ministri e dirigenti di Al Fatah. Una buona occasione per trovare nuovi contatti: tredici anni fa si trovava una tale varietà solo ai funerali e agli incontri politici.
Oggi queste persone non vanno più neanche ai pochi funerali dei giovani uccisi dall’esercito israeliano, e gli incontri politici sono rari. S, un ex detenuto, è uno dei miei funzionari di Al Fatah preferiti. Ultimamente, però, rifiutava tutte le mie proposte di incontrarci per fare quattro chiacchiere. Gli ho chiesto perché e lui è stato sincero: “Mi vergogno. Perché non stiamo facendo niente per migliorare la situazione, e ci accontentiamo di quel poco benessere che abbiamo”.
Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2015 a pagina 30 di Internazionale, con il titolo “In fila per la zuppa”. Compra questo numero | Abbonati
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