Israele divide i palestinesi per controllarli meglio
Sono nel campo profughi di Dheisheh, a sud di Betlemme, in Cisgiordania, in casa di Abu Nidal. Il nostro primo incontro risale al luglio del 2018, anche se conoscevo già il suo nome: l’avevo letto in un elenco di detenuti amministrativi (i palestinesi rinchiusi nelle carceri israeliane senza processo, senza sapere di cosa sono accusati) che stavano facendo lo sciopero della fame. In quell’occasione dovevo scrivere un articolo sull’ennesimo raid dell’esercito israeliano che si era concluso con la morte dell’ennesimo ragazzino palestinese: il quindicenne Arkan Mezher. Durante l’attacco bambini e ragazzi erano scesi in strada lanciando pietre ai soldati per protestare contro l’invasione delle loro case. Arkan aveva lanciato una pietra contro una Jeep blindata che si stava allontanando dal campo, e per questo era stato ucciso dai soldati israeliani.
Lo scorso luglio ho incontrato Abu Nidal a casa dei familiari di Arkan, nei giorni del lutto, in una stanza piena di uomini. Solo uomini, naturalmente. Non gli ho teso la mano perché non sapevo se anche al campo, dove la sinistra è sempre stata forte, valesse l’usanza conservatrice per cui gli uomini palestinesi non stringono la mano alle donne. Abu Nidal mi ha teso la sua, chiedendomi perché non l’avessi fatto io: “Da noi ci si stringe la mano e ci si bacia”, mi ha spiegato. E a quel punto mi ha salutata dandomi un bacio davanti a tutti.
Sono tornata da Abu Nidal all’inizio di aprile per scrivere di un altro raid dell’esercito israeliano e di un altro ragazzo palestinese morto: Sajid Muzher. Sajid aveva diciassette anni e mezzo, faceva il paramedico volontario della Palestinian medical relief society, ed era il cugino di Arkan. La nonna dei due ragazzi è una profuga originaria del villaggio di Hulda (diventato poi il famoso kibbutz dove per anni ha vissuto lo scrittore Amos Oz). Suo marito aveva combattuto l’occupazione nel 1967 e per questo fu esiliato in Giordania. Lei andava a trovarlo e nel frattempo cresceva i figli da sola. Oggi ha ottant’anni e conta sull’aiuto dei nipoti. In particolare faceva affidamento su quello di Arkan e Sajid.
Sajid è caduto. In ospedale si sono resi conto che era ferito all’addome
Il 27 marzo ci sono stati due raid dell’esercito a Dheisheh. In entrambi i casi Sajid è uscito di casa per soccorrere i feriti. Alle due di notte i soldati hanno usato gas lacrimogeni e proiettili di gomma senza provocare feriti. Alle sei del mattino ci sono stati tre feriti, tutti colpiti da proiettili veri. Quando l’esercito si stava già ritirando, Sajid e i suoi amici sono venuti a sapere di un altro ferito lungo la strada principale. Hanno attraversato il campo di corsa e hanno visto i soldati che andavano via a piedi dall’altro lato della strada. Per non essere scambiati per dei manifestanti, i giovani paramedici vestiti con giubbotti arancioni hanno rallentato l’andatura.
All’improvviso Sajid è caduto. Al suo amico ha detto di essere stato ferito a una gamba. Ma sulla gamba non c’era traccia di colpi d’arma da fuoco. In ospedale si sono resi conto che era stato ferito all’addome. Tutti pensavano che sarebbe sopravvissuto, invece l’operazione per salvarlo è andata male. Dal comunicato dell’esercito ho capito che chi l’aveva ucciso faceva parte di un’unità speciale.
Dopo aver incontrato i testimoni della vicenda e il padre di Sajid, sono tornata da Abu Nidal. Abbiamo parlato dei molti detenuti amministrativi originari del campo. Lui e i suoi familiari non fanno che entrare e uscire dal carcere. E non per aver partecipato a operazioni militari. È risaputo che a Dheisheh non ci sono armi (a differenza del campo profughi di Jenin, per esempio). Per decenni, infatti, i leader politici del campo sono stati contrari al possesso di armi. Qui non si spara neanche ai matrimoni, contravvenendo a quella strana usanza per cui i momenti di festa sono accompagnati da colpi sparati in aria. Questo significa che Israele usa la detenzione amministrativa per colpire qualsiasi iniziativa o critica sociale o politica, con pene di almeno sei mesi di carcere, di solito anche di più.
Grazie alla sua esperienza di detenuto, e analizzando il trattamento riservato agli altri prigionieri palestinesi, Abu Nidal è diventato una specie di antropologo delle politiche israeliane. “L’ultima volta mio fratello è stato arrestato dopo di me”, mi ha raccontato. “In carcere ho fatto presente che è prassi comune mettere in cella insieme le persone della stessa famiglia. La guardia mi ha risposto: ‘Non parlare in generale, parla per te. Di’ che vuoi stare in cella con tuo fratello’”.
Abu Nidal aggiunge: “Una volta accettavano che noi palestinesi avessimo dei rappresentanti politici, mentre oggi ci trattano come individui separati. Questo riflette quello che succede fuori, il modo in cui l’occupazione ci divide, geograficamente e socialmente. All’uscita di ogni villaggio l’esercito ha messo un cancello di ferro che può essere chiuso in qualsiasi momento, isolando la comunità. Anche fuori ci costruiscono delle piccole celle separate”.
(Traduzione di Federica Giardini)
Questo articolo è uscito sul numero 1305 di Internazionale. Compra questo numero|Abbonati
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