×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

A chi fa comodo il rinvio delle elezioni palestinesi 

Una protesta contro il rinvio delle elezioni palestinesi a Gaza, 30 aprile 2021. (Ali Jadallah, Anadolu Agency/Getty Images)

La decisione di rinviare a data da destinarsi le elezioni generali palestinesi, annunciata il 29 aprile dal presidente palestinese Abu Mazen, mostra che lui e il suo gruppo di sodali del partito Al Fatah, dai quali si fa consigliare, sono più fedeli all’interesse d’Israele di preservare lo status quo e impedire qualunque scossone o cambiamento.

Rinviando le elezioni per il Consiglio legislativo palestinese (l’organo legislativo istituito dall’Autorità nazionale palestinese), previste per il 22 maggio, i leader del partito mostrano che l’opposizione di Israele allo scrutinio (il primo per i palestinesi dal 2006) ha un peso maggiore del parere del 93 per cento dell’elettorato, che si è registrato per votare, mostrando chiaramente di desiderare un processo democratico.

Lo status quo, paradossalmente, non è questo: cambia costantemente, a scapito dei palestinesi, in quanto popolo e in quanto individui, e a favore dell’appropriazione delle loro terre e delle loro case da parte di Israele.

Ma questo status quo fasullo permette al fossilizzato movimento di Al Fatah di restare attaccato a posizioni di potere economico, amministrativo e politico nelle enclave della Cisgiordania controllate dall’Autorità nazionale palestinese (Anp). Permette a funzionari non eletti (che contano sul loro glorioso passato di combattenti contro l’occupazione, in esilio o nei territori palestinesi conquistati da Israele nel 1967, o che hanno vinto elezioni da tempo scadute) di continuare a sviluppare e mantenere una classe di alti impiegati statali e di signori implicati nel business della sicurezza. E gli permette anche di continuare a controllare molte iniziative nel settore privato, promuovendo e dando la preferenza ai loro soci e amici fidati.

Una certa stabilità
La rigorosa fedeltà dei leader di Al Fatah e dell’Anp agli accordi di Oslo, e in particolare alla cooperazione con Israele in materia di sicurezza, mantiene una certa stabilità nella regione. Questa fedeltà a sua volta si traduce in donazioni e finanziamenti da parte della comunità internazionale che – anche se ridotti negli ultimi anni – sono ancora importanti per il funzionamento dell’autorità.

Questa stabilità, più propriamente nota come sicurezza di Israele a spese della sicurezza e dei diritti dei palestinesi, è importante per i paesi donatori, guidati dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, che sotto il presidente Joe Biden hanno ripreso il sostegno economico ai palestinesi. L’Unione europea può anche aver espresso il suo supporto per elezioni democratiche e promesso di impegnarsi affinché il voto abbia luogo, ma è più difficile vederla usare la sua influenza contro l’Anp, sospendendo l’aiuto economico, una volta che il voto è stato cancellato. È lo stesso bastone che l’Unione europea ha usato contro i palestinesi in passato, dopo l’ascesa al potere di Hamas nel 2006.

Un’elezione palestinese è un male per Israele, ed è un male per la classe dirigente palestinese non eletta, per i seguenti motivi: ha avuto il potenziale di causare alcuni cambiamenti, soprattutto per quello che riguarda la spaccatura nel governo tra la Striscia di Gaza e le enclave della Cisgiordania. In fin dei conti questa spaccatura è stata il fulcro della politica israeliana dal 1991 in poi. Una campagna elettorale significa scambio di idee, espressione di dissenso e dibattiti e discussioni costanti che supererebbero i limiti della censura interna imposta da Abu Mazen.

Una campagna elettorale significa scambio di idee e dibattiti che supererebbero la censura imposta da Abu Mazen

In una campagna elettorale del genere anche Israele sarebbe sotto una lente d’ingrandimento internazionale, per vedere fino a che punto arriverebbe nel sabotaggio delle elezioni con arresti o con la censura delle opinioni contrarie alla posizione ufficiale di Al Fatah. Un’elezione con 36 partiti in corsa garantisce sorprese, cambiamenti non pianificati e nuove coalizioni. Ci sono 1.400 candidati, tra cui 405 donne e il 39 per cento con meno di quarant’anni, in lizza per 132 seggi. Questo avrebbe assicurato un parlamento più giovane, in cui i legislatori avrebbero dovuto dare ascolto ai propri elettori.

Le questioni che affliggono il pubblico palestinese riguardano la corruzione e il clientelismo, gli accordi di Oslo, la cooperazione in materia di sicurezza mentre Israele amplia costantemente le colonie, la mancanza di trasparenza e dell’obbligo di rendere conto del proprio operato da parte di chi comanda, l’impotenza di fronte alla violenza dei coloni, e la questione della fondazione di uno stato in un contesto di debolezza politica. In un simile parlamento tutti questi temi avrebbero avuto l’opportunità di essere affrontati.

Un involucro vuoto
Non è affatto sicuro che Hamas sarebbe stato il principale beneficiario di queste elezioni. La sua lista probabilmente sarebbe diventata la più rappresentata in parlamento, ma non con una maggioranza tale da permettergli di formare una coalizione.

Due liste dissidenti di Al Fatah, in aggiunta a quella ufficiale, avrebbero potuto prendere i voti dei sostenitori del partito stufi del governo di Abu Mazen che nel 2006 scelsero Hamas con un voto di protesta. Le tre formazioni, insieme ad altre che si oppongono all’islam politico, sarebbero potute diventare una forza dominante nel nuovo parlamento e formare una coalizione, ma senza il dominio assoluto di Abu Mazen c’è un vuoto assoluto, che conviene anche a Israele.

Il rinvio delle elezioni per il Consiglio legislativo palestinese ritarderà anche il tentativo di ripristinare il Consiglio nazionale palestinese, che dovrebbe rappresentare l’intero popolo palestinese, sia qui sia in esilio. La terza fase del voto, dopo l’elezione del presidente, sarebbe dovuta essere l’elezione del Consiglio nazionale, il parlamento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), mentre i rappresentanti del Consiglio legislativo sarebbero stati automaticamente inclusi.

Negli ultimi anni gli appelli per risuscitare questa istituzione pan-palestinese si sono moltiplicati, rappresentando uno dei tentativi per restituire all’Olp il suo status di organo che detta la linea politica palestinese. Durante gli anni di Oslo la situazione si è capovolta e l’Anp, che sulla carta è subordinata all’Olp, è diventata l’istituzione politica principale, facendo dell’Olp un involucro vuoto.

All’interno dell’Anp Al Fatah è il movimento dominante, e Abu Mazen e una ristretta cerchia di suoi sodali sono gli unici decisori. Per Israele è molto conveniente che la politica palestinese sia guidata da un piccolo gruppo di alti funzionari i cui privilegi e il cui futuro economico – loro e delle loro famiglie – sono tenuti in ostaggio da Israele.

Un’alternativa per Gerusalemme
Nelle ultime settimane, man mano che si avvicinava l’inizio della campagna elettorale, fissata per venerdì 30 aprile, il mantra “Niente elezioni senza Gerusalemme” è stato espresso sempre più insistentemente dai sodali di Abu Mazen, mentre Israele evitava di dare il suo assenso ufficiale allo svolgimento del voto a Gerusalemme. Il 28 aprile Mahmoud Aloul, leader della lista di Al Fatah e vice di Abu Mazen, ha dichiarato che tenere delle elezioni senza Gerusalemme sarebbe stato un tradimento e un crimine.

Lui e altri hanno totalmente ignorato un’opzione diversa dalla cancellazione delle elezioni, proposta più volte da altri partiti: trovare dei modi per organizzare il voto a Gerusalemme Est senza l’approvazione ufficiale di Israele. Per esempio, allestendo dei seggi elettorali negli edifici dell’Onu, nelle chiese e nelle moschee, compresa Al Aqsa, e andare casa per casa con un’urna elettorale, oppure istituire altri seggi nelle zone del governatorato di Gerusalemme che non sono state annesse a Israele.

Aloul e Abu Mazen hanno parlato con il loro tipico disprezzo delle persone che hanno avanzato queste proposte, come se le elezioni a Gerusalemme fossero per loro una questione meramente tecnica. Hanno completamente ignorato l’aspetto sovversivo di queste proposte: frantumare l’illusione della normalità a Gerusalemme e lanciare una campagna di resistenza popolare attraverso l’atto stesso di far votare i palestinesi di Gerusalemme Est in qualunque modo possibile.

Abu Mazen, Aloul e molti dei loro fedelissimi non hanno spiegato perché fosse necessario attendere l’approvazione israeliana per il voto di Gerusalemme Est, e dunque arrendersi al veto israeliano alle elezioni. Il loro silenzio espone una tipica ipocrisia: gli alti funzionari di Al Fatah e dell’Anp elevano sempre a proprio modello la “lotta popolare”, in contrasto con lo slogan della lotta armata. Non sfruttare questa opportunità dimostra quello che tutti sanno: i leader di Al Fatah non credono nella lotta popolare, non gli interessa, e sicuramente non sono interessati a guidarla.

Prima che l’atteso rinvio delle elezioni fosse annunciato, chi si opponeva alla decisione ha espresso la propria posizione in molti modi, oltre che sui social network: incontri su Zoom, interviste con mezzi d’informazione indipendenti, una manifestazione a Gaza dei sostenitori della lista indipendente di Mohammed Dahlan e una veglia in piazza Manara a Ramallah.

La notte del 29 aprile, dopo l’annuncio ufficiale del rinvio delle elezioni, a Ramallah alcune centinaia di persone, tra cui un gruppo di sostenitori della lista indipendente, sono uscite per contestare la decisione.

La settimana precedente, Mahmoud Dudin, che insegna diritto all’università di Birzeit, ha affermato che il rinvio delle elezioni da parte del potere esecutivo viola la costituzione palestinese. Durante un incontro su Zoom promosso da Masarat, il centro palestinese per la ricerca politica e gli studi strategici, uno dei principali enti indipendenti che si batte contro la scissione politica palestinese e sostiene un dibattito critico su come trovare una via d’uscita dallo status quo, Dudin ha dichiarato che il rinvio del voto è una competenza esclusiva della Commissione elettorale centrale, a condizione che fornisca motivazioni convincenti. Secondo la commissione sarebbe possibile tenere le elezioni a Gerusalemme anche senza il permesso ufficiale di Israele, ha detto Dudin. Ma il 29 aprile la commissione elettorale ha comunicato la sospensione dell’intero processo elettorale.

Secondo Dudin l’opinione pubblica palestinese ha due opzioni: una è presentare delle petizioni alla Corte suprema palestinese contro la decisione di rinviare/cancellare le elezioni. Ma le possibilità di successo sono scarse perché il sistema giudiziario e i magistrati sono stati nominati dalla leadership politica (cioè da Abu Mazen) e sono suoi prigionieri, ha affermato Dudin. La seconda opzione è “rivoluzionaria”: una disobbedienza civile che creerebbe “una legittimità rivoluzionaria, l’equivalente di una legittimità costituzionale, e uno strumento per ripristinarla”.

È difficile immaginare che 35 partiti possano ignorare l’ordine di cancellare/rinviare le elezioni e continuare a prepararsi al voto come se niente fosse. Ma il semplice fatto di avanzare questa idea in pubblico riflette l’enorme distanza tra l’opinione pubblica palestinese e i suoi alti funzionari non eletti. Sulla scia di questa decisione e della generale avversione che ha incontrato, sarà difficile vedere la lista ufficiale di Al Fatah candidata in una qualsiasi elezione generale nel prossimo futuro.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è apparso sul quotidiano israeliano Haaretz.

Internazionale ha una newsletter settimanale che racconta cosa succede in Medio Oriente. Ci si iscrive qui.

pubblicità