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A Gaza Israele cancella intere famiglie palestinesi

Gaza, 15 maggio 2021. Il funerale di due donne e otto bambini della famiglia Abu Hatab, morti in un bombardamento israeliano. (Khalil Hamra, Ap/LaPresse)

Quindici famiglie palestinesi, di uno o più nuclei, hanno perso almeno tre, e anche di più, dei loro componenti sotto i bombardamenti sulla Striscia di Gaza compiuti da Israele, nella settimana compresa tra il 10 maggio e il pomeriggio del 17. Genitori e figli, neonati, nonni, fratelli, nipoti sono morti insieme quando Israele ha bombardato le loro case, che gli sono crollate addosso. A quanto si sa oggi, non gli era stato dato alcun preavviso che gli avrebbe permesso di scappare dalle abitazioni prese di mira.

Sabato 15 maggio un rappresentante del ministero della salute palestinese ha elencato i nomi di 12 famiglie uccise, ciascuna in casa propria, ciascuna in un singolo bombardamento. Da allora, in un attacco aereo avvenuto prima dell’alba di domenica 16 maggio, durato settanta minuti e diretto contro tre case di via Al Wehda nel quartiere Rimal di Gaza, sono state uccise tre famiglie composte in tutto da 38 persone. Alcuni dei corpi sono stati ritrovati la mattina di domenica. Le squadre di soccorso palestinesi sono riuscite a trovare altri corpi e a portarli fuori dalle macerie solo la domenica sera.

Cancellare intere famiglie durante i bombardamenti israeliani è stata una delle caratteristiche della guerra del 2014. Le statistiche dell’Onu riferiscono che, durante i circa cinquanta giorni di guerra, sono state uccise 142 famiglie palestinesi (742 persone in tutto). I numerosi episodi di questo tipo, allora come oggi, dimostrano che non si è trattato di errori, e che il bombardamento di un’abitazione, quando tutti i suoi residenti sono all’interno, arriva dopo decisioni prese dall’alto, sostenute dall’approvazione di giuristi militari.

Un’indagine dell’associazione di difesa dei diritti umani B’Tselem, che si è concentrata su 70 famiglie cancellate nel 2014, fornisce tre spiegazioni per l’uccisione di tante persone, tutte insieme, nel bombardamento condotto dall’esercito israeliano sulla casa di ciascuna famiglia.

Una delle ragioni è che l’esercito israeliano non aveva avvertito in anticipo i proprietari o gli inquilini delle case, o l’avviso non era stato recapitato all’indirizzo esatto o non era stato recapitato in tempo.

Emerge qui una differenza tra la sorte di quegli edifici bombardati quando i loro residenti erano all’interno, e quella delle “torri”, gli alti edifici colpiti a partire dal secondo giorno del conflitto attuale, di giorno o al tramonto.

In base a quanto riferito, i proprietari o i portieri delle torri hanno ricevuto l’avvertimento, al massimo con un’ora di preavviso, di lasciare l’edificio, tramite una telefonata dell’esercito o dei servizi di sicurezza dello Shin Bet, poi sono stati lanciati dei “missili d’avvertimento” con i droni. Queste persone dovevano avvertire i residenti nel poco tempo rimanente.

Non sono stati colpiti solo edifici di più piani. La sera del 13 maggio è stata bombardata la casa di Omar Shurabji, a ovest di Khan Yunis. Sulla strada si è formato un cratere e una stanza di questo edificio a due piani, dove vivono due famiglie, sette persone in tutto, è stata distrutta.

Circa venti minuti prima dell’esplosione, l’esercito ha chiamato Khaled Shurabji e gli ha detto di dire a suo zio Omar di lasciare la casa, a quanto riferisce un rapporto del Centro palestinese per i diritti umani. Non è chiaro se Omar fosse sul posto, ma i residenti della casa si sono tutti affrettati a uscire, e quindi non ci sono state vittime.

Il registro della popolazione palestinese, compreso quello di Gaza, è nelle mani del ministero dell’interno israeliano

Il fatto stesso che l’esercito israeliano e lo Shin Bet si siano preoccupati di chiamare e ordinare l’evacuazione delle case dimostra che le autorità israeliane hanno i numeri di telefono aggiornati delle persone che si trovano in ognuno degli edifici destinati alla distruzione. Hanno i numeri di telefono dei parenti delle persone sospettate o note come attivisti di Hamas o della Jihad islamica.

Il registro della popolazione palestinese, compreso quello di Gaza, è nelle mani del ministero dell’interno israeliano. E include dati come nomi, età, parenti e indirizzi.

Come richiesto dagli accordi di Oslo, il ministero dell’interno palestinese, attraverso il ministero degli affari civili, trasferisce regolarmente informazioni aggiornate a Israele, soprattutto quelle relative alle nascite e alla presenza di neonati. I dati registrati devono essere approvati da Israele: altrimenti i palestinesi non possono ricevere una carta d’identità quando arriva il momento o, nel caso dei minori, non possono viaggiare da soli o con i loro genitori attraverso i valichi di frontiera controllati da Israele.

È chiaro quindi che l’esercito conosce il numero e i nomi di bambini, donne e anziani che vivono in ogni edificio residenziale che per un qualsiasi motivo decide di bombardare.

La seconda spiegazione di B’Tselem sul perché intere famiglie siano state annientate nel 2014 è che la definizione dell’esercito di “obiettivo militare” attaccabile era molto ampia, e comprendeva le case di esponenti di Hamas e della Jihad islamica. Queste case erano descritte come infrastrutture operative o infrastrutture di comando e controllo dell’organizzazione, o ancora infrastrutture terroristiche, anche semplicemente perché al loro interno si trovava un telefono, o si era tenuta una riunione.

La terza spiegazione, nell’analisi di B’Tselem del 2014, è che l’interpretazione dell’esercito di “danni collaterali” fosse molto flessibile e ampia. L’esercito sosteneva e sostiene di agire secondo il principio di “proporzionalità” tra danni ai civili non coinvolti nel conflitto e raggiungimento del legittimo obiettivo militare. Agisce, cioè, in modo che in ogni eventualità il “danno collaterale” causato ai palestinesi sia contenuto e ragionevole.

Ma quando l’“importanza” di un esponente di Hamas è considerata alta e la sua residenza è definita come un obiettivo legittimo per un bombardamento, i danni collaterali “ammissibili”– ovvero il numero di persone non coinvolte che possono essere uccise, compresi bambini e neonati – sono molto elevati.

Nel bombardamento intensivo di tre edifici residenziali in via Al Wehda a Gaza, prima dell’alba del 16 maggio 2021, sono state uccise le famiglie Abu al Ouf, Al Qolaq e Ashkontana. Nell’immediato, quando il numero di morti di una famiglia è così grande, è difficile trovare un sopravvissuto e chiedergli di parlare di ogni persona della famiglia, e dei suoi ultimi giorni.

I nomi e letà
Ci si deve quindi accontentare dei loro nomi e della loro età, come vengono elencati nei rapporti quotidiani delle organizzazioni per i diritti umani che raccolgono le informazioni e riferiscono, quando ne sono al corrente, se qualcuno della famiglia apparteneva a un’organizzazione militare. Finora non è chiaro se, e quale, tra i residenti degli edifici di Al Wehda fosse considerato un obiettivo così importante da “permettere” la cancellazione di intere famiglie.

Della famiglia Abu al Ouf sono stati uccisi: il padre Ayman, un medico di medicina interna dell’ospedale Shifa, e i suoi due figli: Tawfiq, 17 anni, e Tala, 13. Altre due loro parenti: Rim, 41 anni, e Rawan, 19. I loro cinque corpi sono stati trovati poco dopo il bombardamento. I corpi di altre otto persone della famiglia Abu al Ouf sono stati estratti dalle macerie solo in serata. Si tratta di Subhiya, 73 anni, Amin, 90, Tawfiq, 80, sua moglie Majdiya, 82, della loro parente Raja (sposata con un uomo della famiglia Afranji) e dei suoi tre figli: Mira, 12 anni, Yazen, 13, e Mir, 9.

Durante l’incursione aerea su questi edifici, sono stati uccisi anche Abir Ashkontana, 30 anni, e i suoi tre figli: Yahya, 5, Dana, 9, e Zin, 2. In serata, sono stati trovati i corpi di altre due bambine: Rula, 6 anni, e Lana, 10. Il rapporto del Centro palestinese per i diritti umani non chiarisce se queste due bambine siano o meno figlie di Abir.

Nei due edifici vicini sono stati uccisi 19 persone della famiglia Al Qolaq: Fuaz, 63 anni, e i suoi quattro figli, Abd al Hamid, 23, Riham, 33, Bahaa, 49, e Sameh, 28, insieme a sua moglie Iyat, 19. Anche il loro bambino Qusay, di sei mesi, è rimasto ucciso. Un’altra donna della famiglia allargata, Amal al Qolaq, 42 anni, è stata uccisa, così come tre dei suoi figli: Taher, 23 anni, Ahmad, 16, e Hanaa, 15. Sono stati uccisi anche i fratelli Mohammed al Qolaq, 42, e Izzat, 44, e i figli di Izzat: Ziad, 8 anni, e Adam, di 3 anni. Altre due donne sono state uccise: Doaa al Qolaq, 39 anni, e Saadia al Qolaq, 83. In serata i corpi di Hala al Qolaq, 13 anni, e di sua sorella Yara, 10, sono stati estratti da sotto le macerie. Il rapporto del Centro palestinese per i diritti umani non chiarisce chi siano i loro genitori e se anche loro siano state uccise nel bombardamento.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano israeliano Haaretz.

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