A un anno dall’inizio delle manifestazioni di Euromaidan la situazione politica ucraina comincia finalmente ad assumere contorni piuttosto netti. E, dopo mesi passati a fare congetture e a tentare di interpretare mosse e tattiche apparentemente contraddittorie, appaiono evidenti anche i piani politici che hanno ispirato la strategia di Mosca in Crimea e nel Donbass.
Alla fine il Cremlino ha avuto quello che voleva. La Crimea, prima di tutto, fatta propria con un blitz rapido e organizzato alla perfezione: nell’arco di tre settimane dalla deposizione di Viktor Janukovič, le bandiera russa già sventolava sulla sede del parlamento autonomo di Sinferopoli e l’annessione era stata sancita da un referendum quantomeno discutibile.
Dopo la Crimea, Putin è anche riuscito a raggiungere l’obiettivo che probabilmente aveva in testa dall’inizio della crisi: creare un confitto congelato nell’est dell’Ucraina secondo il canovaccio già applicato in Moldova e Georgia. Nel caso del Donbass, l’annessione – che avrebbe costi altissimi – non sembra interessare al Cremlino, che è intenzionato invece a usare le repubbliche filorusse di Luhansk e Donetsk per fare pressioni sul governo di Kiev e indebolirne la sovranità. La nuova tregua tra il governo ucraino e i ribelli, che comincerà il 5 dicembre, può essere un passo importante verso una normalizzazione di facciata dei rapporti che confermerebbe questo scenario.
Il costo di una simile strategia sarà però altissimo. L’intervento del Cremlino, che ha approfittato di una crisi politica che con ogni probabilità si sarebbe risolta pacificamente nel giro di poche settimane, ha scavato un fossato profondissimo con la stragrande maggioranza dell’opinione pubblica di un paese con cui Mosca aveva, e ha ancora, rapporti solidissimi. E ha contribuito a innescare un processo di radicalizzazione politica nelle istituzioni ucraine che durante le proteste, e anche nel momento della caduta di Janukovič, non era affatto scontato.
Certo, è vero che dal voto del 26 ottobre l’estrema destra di Svoboda è uscita molto ridimensionata e che i neofascisti di Praviy Sektor non hanno sfondato, ma è innegabile che l’intero asse della politica ucraina si sia pericolosamente spostato su posizioni radicalmente nazionaliste. A testimoniarlo, se ce ne fosse ancora bisogno, ci sono le recenti foto di un gruppo di neonazisti che fanno il saluto romano e mostrano svastiche tatuate negli uffici della polizia di Kiev, che dall’inizio di novembre è guidata da Vadim Trojan, vicecomandante del battaglione Azov, una formazione paramilitare vicina alla destra più estrema. E poi c’è il conflitto militare, che ha fatto almeno quattromila morti. Anche in questo caso in occidente la responsabilità del governo di Kiev è stata forse sottovalutata.
Il risultato è una situazione in cui non ci sono vincitori. L’Ucraina ha perso l’integrità territoriale e rischia di infilarsi in un vicolo cieco in cui i principali partiti fanno gara a chi è più intransigentemente nazionalista. E Mosca, colpita dalle sanzioni occidentali (che hanno contribuito ad affossare definitivamente il progetto del gasdotto South stream) e indebolita dal crollo del prezzo del petrolio, è riuscita nella non facile impresa di rompere i rapporti con un paese fratello, rischiando per di più di alienarsi anche altre nazioni dell’ex Urss con cui ha tradizionalmente ottimi rapporti, per esempio l’Armenia e il Kazakistan. Ma in compenso il Cremlino può contare sulle repubbliche popolari di Luhansk e Donetsk, destinate a diventare delle piccole satrapie fuori della storia. Come la Transnistria, l’Abchazia e l’Ossezia del sud.
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