Lo scorso settembre, in una conversazione privata a margine di un incontro pubblico, lo scrittore ungherese András Forgách aveva usato parole di disarmante semplicità: “Viktor Orbán ha costruito un sistema in base al quale, in ogni momento e senza nessuna opposizione, può trasformare il paese in una dittatura”. Alla luce delle novità degli ultimi giorni – con il primo ministro ungherese che ha usato la pandemia Covid-19 per far approvare una legge che gli concede pieni poteri durante tutta la durata di un’emergenza di cui spetterà all’esecutivo stesso decretare la fine – l’analisi di Forgách ha il merito di una cristallina chiarezza. Ma non è necessariamente profetica.
Perché l’ultima mossa di Orbán è solo il culmine di un percorso autoritario che dura da anni e che si è dipanato sotto lo sguardo spesso benevolo delle opinioni pubbliche europee. E contro il quale finora le istituzioni comunitarie non hanno saputo, o voluto, trovare una risposta efficace.
Dopo dieci anni di riforme illiberali, di attacchi alle garanzie democratiche, di brutale propaganda sulla pelle di migranti e minoranze, di demolizione della libertà di stampa e di insegnamento, la decisione di proclamare uno stato di emergenza illimitato, per consentire all’esecutivo di scavalcare il parlamento e di governare per decreto, è stata presa senza ascoltare le proteste dell’opposizione, che aveva chiesto un limite di tempo allo stato d’eccezione. Ma non solo: la netta chiusura del governo fa immaginare che in caso di problemi seri per il paese, la responsabilità potrà essere scaricata sull’irresponsabilità dei dissidenti e sul loro no all’unità nazionale. Tutto questo è avvenuto attraverso un meccanismo formalmente ineccepibile. E il vero problema sta proprio qui: non tanto nella convocazione di uno stato d’emergenza indefinito, ma nel meccanismo che lo ha reso possibile.
Quello ungherese è un sistema in cui la competizione sopravvive ma è pesantemente falsata a favore del partito al potere
Nelle ultime tre legislature Orbán ha costruito un sistema che nei fatti non è più democratico, ma basato sullo strapotere della maggioranza. Lo ha fatto in modo unilaterale, senza ascoltare le forze dissenzienti e usando come una clava i numeri della sua schiacciante maggioranza, ma sempre rimanendo nel formale perimetro del rispetto della legge. Ha forzato e piegato al suo volere regole e norme, ha svuotato di significato e prerogative le istituzioni democratiche e ha annunciato la nascita di un nuovo regime cristiano e illiberale nei valori e negli obiettivi, ma in fondo si è sempre nascosto dietro a una logica brutalmente semplicistica: stiamo comunque agendo nel rispetto del dettato della legge, e se anche facciamo cose criticabili, guardatevi intorno, quale paese può dirsi senza peccato?
Efficace rappresentazione
Secondo questo ragionamento, quando si critica il controllo sui mezzi d’informazione esercitato da Fidesz, il partito di Orbán, ci si sente rispondere che anche in altri paesi il rapporto tra esecutivo e giornalisti è altrettanto stretto. E se si punta il dito contro la legge elettorale ungherese, molto sbilanciata a favore del partito di maggioranza, si riceverà l’invito a guardare ad altre nazioni, magari al Regno Unito, che hanno sistemi altrettanto imperfetti, perché poco rappresentativi della volontà popolare. Il punto è che nella stragrande maggioranza dei paesi europei queste misure discutibili sono sporadiche, e non fanno capo a un progetto consapevolmente antidemocratico. Nell’Ungheria di Orbán, invece, l’accumularsi di riforme illiberali ha finito per trasformare il modello politico in quell’ibrido semidemocratico che gli studiosi chiamano “autoritarismo competitivo”, cioè un sistema in cui la competizione sopravvive ma è pesantemente falsata a favore del partito al potere.
Per avere un’efficace rappresentazione del meccanismo usato dalle istituzioni ungheresi per respingere le accuse di autoritarismo e difendere le proprie scelte nei consessi democratici – cioè ribaltare le accuse e appellarsi a un generico rispetto delle diverse sensibilità politiche – basta dare un’occhiata al video del confronto pubblico che a novembre ad Amsterdam ha riunito l’eurodeputata olandese Sophie in ‘t Velt, lo storico ungherese Ferenc Laczo e la ministra della giustizia ungherese Judit Varga, una delle figure di punta di Fidesz. Costretta sulla difensiva in diversi frangenti da un pubblico piuttosto ostile, Varga non risparmia nessuno degli argomenti della propaganda e del vittimismo di Orbán: il paese è sotto attacco perché ha il coraggio di opporsi ai diktat di Bruxelles e le critiche che riceve sono strumentali e politiche. Ma soprattutto, come la ministra ha scritto in una lettera aperta pubblicata a novembre dal sito Euronews, è davvero possibile definire lo stato di diritto? E la sua difesa spetta all’Unione europea? Per l’Ungheria di Orbán la risposta a entrambi i quesiti è evidentemente negativa.
Di fronte a una simile linea difensiva, che nega il problema o lo aggira, e alle ultime svolte autoritarie del paese, che di queste argomentazioni sono l’approdo concreto, l’approccio legalistico delle istituzioni comunitarie, cioè le iniziative in difesa dello stato di diritto, per quanto necessario non è più sufficiente. Di fronte a un Orbán che con l’alibi di una terribile pandemia gioca scopertamente le carte dell’autoritarismo serve anche una risposta più nettamente politica, che metta il governo di Budapest davanti alla sua vera, grande colpa: aver demolito, al di là delle singole regole, quel sistema basato sulla separazione dei poteri, sul dialogo, sul rispetto dei ruoli istituzionali, sulla trasparenza e sulla libertà d’informazione che è la democrazia.
Agli ottimisti che credono nella buona fede del governo e sono convinti che con la fine della minaccia del Covid-19 la situazione tornerà alla normalità senza strascichi di sorta, giova invece ricordare che lo “stato di crisi dovuto alla immigrazione di massa” è ancora in vigore dal 2015. È stato prorogato per l’ottava volta il 5 marzo scorso. Un’altra emergenza infinita, vera o presunta.
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