Chiudere la rotta del Mediterraneo centrale è irrealistico e inumano
Il mare è una frontiera naturale, è il più alto e pericoloso dei muri. Centosettanta miglia marittime separano le coste libiche dalle coste italiane eppure da decenni migliaia di persone provano ad attraversare il confine più impervio: il mar Mediterraneo. Nel 2016 sono state 181mila le persone salvate dai mezzi di soccorso civili e militari schierati al largo delle coste libiche, ma cinquemila sono stati i corpi senza vita recuperati. Secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), dall’ottobre del 2013 al gennaio del 2017 sono 13.288 i morti e i dispersi nel Mediterraneo.
Proprio in seguito a un naufragio in cui persero la vita più di trecento persone, il 3 ottobre 2013, il governo italiano decise di lanciare la missione di ricerca e soccorso Mare nostrum, che aveva come obiettivo quello di evitare nuovi drammatici incidenti attraverso la presenza costante di 15 mezzi di soccorso della marina militare italiana, pronti a intervenire al largo delle coste libiche. La missione italiana, che ha salvato la vita a centomila persone e ha indicato la strada di un approccio umanitario al fenomeno migratorio dall’Africa all’Europa, si concluse nel dicembre del 2014, lasciando il passo a una missione di ricognizione europea, molto meno ambiziosa: Triton. Nella primavera del 2015, in seguito ad altri due naufragi tra cui quello del 18 aprile in cui persero la vita 800 persone, l’Unione europea decise di rafforzare la missione al largo della Libia, assegnando all’operazione più mezzi di soccorso.
A quasi due anni da quella decisione, l’Europa vuole cambiare approccio. Chiudere la rotta del Mediterraneo centrale, secondo le parole dello stesso presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, è l’obiettivo del summit che si è tenuto a Malta il 3 febbraio. Lo scopo è quello di ridurre il numero di arrivi sulle coste italiane, convincere gli stati europei a riaprire le frontiere interne dell’Unione europea e ripristinare lo spazio Schengen di libera circolazione il prima possibile.
Replicare un accordo con la Libia sul modello di quello concluso con la Turchia è impossibile
Dal punto di vista politico, l’obiettivo è rilanciare il progetto europeo, che ha dimostrato tutte le sue debolezze proprio nella gestione del fenomeno migratorio, attraverso la difesa dei confini esterni dell’Unione, affidandone la gestione a paesi terzi come la Turchia e la Libia. Gli scopi sono chiari, ma i metodi sono cinici, inefficaci e inumani. Da un lato, infatti, replicare un accordo con la Libia per l’esternalizzazione delle frontiere sul modello di quello concluso nel marzo del 2016 con la Turchia è impossibile, perché il governo di unità nazionale guidato da Fayez al Serraj controlla una piccola parte del territorio del paese nordafricano, un territorio poco più esteso della capitale Tripoli, ancora conteso tra decine di milizie dopo la caduta del colonnello Muammar Gheddafi nel 2011. Sembra ostile all’intervento europeo, per esempio, Khalifa Haftar, il generale vicino al governo di Tobruk, appoggiato dall’Egitto e da Mosca.
Tuttavia l’Unione europea mostra determinazione nell’affidare alle autorità libiche il contrasto “del traffico di esseri umani” e “dell’immigrazione irregolare”. I leader dell’Unione europea, riuniti a Malta, hanno approvato una serie di misure che vanno in questa direzione: affidare alla guardia costiera libica il pattugliamento delle acque territoriali libiche con l’obiettivo di fermare le imbarcazioni in partenza. I punti principali del piano sono: l’addestramento della guardia costiera libica, la chiusura della frontiera meridionale del paese nordafricano, l’estensione dei centri per migranti nel paese, un programma di sostegno al rimpatrio volontario dei migranti che si trovano in Libia. Secondo le prime indiscrezioni, l’impegno europeo si concretizzerà in un investimento di 400 milioni di euro. Duecento saranno stanziati da Bruxelles entro il 2017, il resto dovrà essere investito in Libia dai singoli paesi con tempi e modalità che non sono ancora chiare.
La Libia non è un paese sicuro
Ma che fine faranno i migranti a cui non sarà permesso di salpare dalle coste libiche? L’Unione europea a Malta sembra essersi disinteressata della loro sorte. Le organizzazioni per i diritti umani, tra cui anche l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) e l’Unhcr, il 2 febbraio hanno chiesto all’Europa di non stipulare accordi con un paese considerato “non sicuro” come la Libia. La portavoce dell’Unhcr in Italia Carlotta Sami ha spiegato che i centri in cui sono trattenuti i migranti sono centri di detenzione di massa in cui le condizioni di vita sono inumane.
“Non è un dettaglio trascurabile che al 39 per cento dei migranti arrivati in Italia dalla Libia via mare venga riconosciuta la protezione internazionale”, ha aggiunto Sami. “Siamo fermamente convinti che, data la situazione attuale, non si possa considerare la Libia un paese terzo sicuro né si possano avviare procedure extraterritoriali per l’esame delle domande di asilo in Nord Africa”, è scritto nel comunicato congiunto di Oim e Unhcr.
L’ong Medici senza frontiere è stata ancora più dura. “La legge e l’ordine sono al collasso in Libia”, ha detto Arjan Hehenkamp, uno dei direttori generali di Msf, appena tornato da una missione in Libia. “Le persone provenienti da paesi dell’Africa subsahariana sono arrestate e tenute in detenzione senza processo legale, senza alcun modo per opporsi o fare ricorso, e senza contatto con il mondo esterno. I detenuti mi hanno pregato di contattare le loro famiglie per fargli sapere che erano ancora vivi. Non avevano idea di quale sarebbe stato il loro destino, nonostante fossero già imprigionati da mesi ormai”, continua Hehenkamp.
L’Unione europea sta travisando la realtà: la Libia non è un paese sicuro. “Impedire alle persone di lasciare quel paese o costringerle a ritornarvi equivale a mettere in discussione i fondamentali valori della dignità umana e del rispetto delle regole su cui si fondano le istituzioni europee”, ha concluso Medici senza frontiere in un comunicato.
Il ruolo dell’Italia
Roma avrà un ruolo centrale nel nuovo corso delle relazioni tra Tripoli e Bruxelles, tanto che il 2 febbraio, qualche ora prima dell’inizio del vertice europeo della Valletta, il premier libico Fayez al Serraj è arrivato a Roma per firmare il memorandum di intesa bilaterale con il presidente del consiglio italiano Paolo Gentiloni. Il governo italiano stava lavorando a questo accordo da tempo e anche per questo aveva riaperto la sede della sua ambasciata a Tripoli. Il ministro dell’interno Marco Minniti aveva anticipato i termini dell’intesa nel suo viaggio a Tripoli il 9 gennaio.
L’accordo tra l’esecutivo di Gentiloni e il governo di unità nazionale libico ricalca gli accordi che l’Italia ha stipulato in passato con l’ex colonia: quello del 2008 e quello del 2012. Il primo memorandum tra l’Italia e la Libia fu sottoscritto dall’allora ministro dell’interno Roberto Maroni con il governo di Muammar Gheddafi. Nel 2012 il patto fu rinnovato dall’allora ministra Anna Maria Cancellieri.
Nel 2008 il patto prevedeva che l’Italia versasse alla Libia cinque miliardi di dollari in aiuti in cambio del pattugliamento costante della costa per impedire ai migranti di partire. Nel 2012 si aggiunse tra i punti dell’accordo, il rafforzamento delle frontiere meridionali della Libia e l’addestramento delle forze di polizia di frontiera locali. Già dieci anni fa, l’accordo era stato criticato dalle organizzazioni per i diritti umani, che denunciavano la detenzione arbitraria dei migranti, i maltrattamenti e le torture a cui erano sottoposti da parte delle autorità libiche.
Il progetto attuale è nel solco di quelli precedenti con molte più incognite rispetto al passato, ma con gli stessi dubbi dal punto di vista umanitario. Durante la conferenza stampa a palazzo Chigi il premier Al Serraj ha dichiarato che i termini economici dell’accordo sono ancora in discussione, ma il piano che è stato sottoscritto tra Italia e Libia sarà valido per almeno tre anni dalla sua firma, il 2 febbraio. Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, con la firma del memorandum d’intesa con la Libia l’Italia viola “il diritto di asilo consacrato nella costituzione italiana e il dovere di rispettare i diritti umani previsti nel diritto internazionale e vincolanti per il nostro paese”. Secondo l’Asgi, inoltre, l’Italia usa i fondi della cooperazione per finanziare la militarizzazione della frontiera.
Ancora più duro il commento di Medici senza frontiere: “Per migliaia di esseri umani, il muro virtuale in corso di costruzione nel Mediterraneo centrale avrà come immediata conseguenza detenzioni arbitrarie, maltrattamenti, stupri, sfruttamento e respingimenti nei paesi di origine. Senza alcun riferimento ad alternative sicure per coloro che non possono più restare in Libia o che sarebbero in pericolo di vita se venissero rimpatriati”.