Un uomo nato in Francia, di cittadinanza italiana, ha sequestrato e ha dato fuoco a uno scuolabus con a bordo 51 bambini. Un italiano di origine senegalese ha incendiato un autobus con a bordo una scolaresca a San Donato Milanese. Un autista con precedenti penali ha sequestrato un gruppo di studenti. Un uomo di origine straniera ha minacciato di uccidere una scolaresca in cui c’erano molti ragazzini stranieri.
È la stessa notizia, ma quando si attribuisce così tanta importanza alla nazionalità o al colore della pelle, il senso può cambiare molto. Il ministro dell’interno Matteo Salvini, sbagliando, ha definito l’attentatore “un senegalese con la cittadinanza italiana” e ha promesso di fargli togliere la cittadinanza grazie al decreto sicurezza (se sarà condannato per terrorismo).
In effetti il decreto che porta la firma del ministro, e che è entrato in vigore nell’ottobre scorso, per la prima volta ha introdotto in Italia la possibilità di revocare la cittadinanza (solo ai cittadini che l’hanno acquisita) per reati legati al terrorismo. Questo punto legittima un principio: sarebbe stato meno grave se la tentata strage di San Donato Milanese fosse stata compiuta da un italiano, figlio di cittadini italiani.
È l’idea secondo cui i reati compiuti da stranieri o da italiani di origine straniera sono più gravi di quelli compiuti da italiani di origine italiana, un principio che permea l’intero impianto della legge su immigrazione, asilo e cittadinanza chiamata decreto Salvini. Molti esperti hanno suggerito che proprio questa parte della legge, quella sulla revoca della cittadinanza, è incostituzionale, vìola diverse convenzioni, ma soprattutto l’articolo 3 della nostra costituzione, quello che stabilisce l’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Eppure l’idea di una legge differenziale, che vale in modo diverso in base alla categoria a cui si appartiene, fa sempre più breccia nel dibattito pubblico e si ripropone a ogni caso di cronaca nera.
C’è l’idea secondo cui gli stranieri e i discendenti di stranieri debbano “meritare” di appartenere alla società in cui vivono
La contraddizione, nel caso recente, è esplosa quando è emerso che il ragazzino che ha chiamato i carabinieri, salvando così tutti gli altri, si chiama Rami Shehata e ha il passaporto egiziano anche se è nato in Italia nel 2005. È un ragazzino egiziano di 13 anni che non ha mai vissuto in Egitto, va a scuola a Crema, parla con un forte accento lombardo e non è riuscito ancora a ottenere la cittadinanza italiana come un milione di altri ragazzini nati in Italia da genitori stranieri, dopo che la legge di riforma della cittadinanza è naufragata nel dicembre del 2017, boicottata dallo stesso partito che l’aveva proposta.
Per capire quanto sia diffusa l’idea profondamente razzista che c’è “un buon migrante” che va premiato per i suoi gesti di eroismo e “un cattivo migrante” che va punito più severamente per i reati che compie, basta pensare alla frase dell’ex governatrice del Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, che commentò uno stupro compiuto da un richiedente asilo dicendo: “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza”. È l’idea secondo cui gli stranieri e i discendenti di stranieri debbano “meritare” di appartenere alla società in cui vivono e non debbano invece semplicemente rispettare, come tutti gli altri cittadini, le leggi in vigore in quella società.
Individuare un nesso tra il colore della pelle dell’attentatore di San Donato Milanese e il suo gesto ha senso? Suggerire un collegamento tra le sue origini e il reato di cui si è macchiato aiuta a capire cos’è successo? E, infine, è possibile stabilire una relazione tra il gesto criminale di un uomo e un’intera categoria di persone?
Da quando le campagne elettorali si giocano sull’immigrazione, cioè dal 2001, e i discorsi dei politici usano questo tema per raccogliere consenso abbiamo visto spesso ripetersi lo stesso copione: i casi di cronaca, i reati compiuti dagli stranieri o dagli italiani di origine straniera hanno condizionato il dibattito sull’immigrazione, compromettendo, a volte irrimediabilmente, la comprensione del fenomeno.
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