“Non ho mai fatto tanta fatica per capire la politica. Una fatica proprio tecnica, mi sfugge il nesso tra gli eventi”. Così scrive Michele Serra sulla Repubblica di sabato 10 novembre. È la stessa sensazione che ho già provato a raccontarvi nel post della scorsa settimana, il più letto (credo non solo perché ospita un video curioso) tra quelli che ho pubblicato finora su Internazionale.

È come se la politica italiana si fosse trasformata in una serie di prospettive sghembe, variabili e indecifrabili che si aprono su ulteriori prospettive sghembe, variabili e indecifrabili. E così, sembrerebbe, all’infinito. Niente punti di riferimento stabili. È proprio l’assenza di punti di riferimento costanti e coerenti tra loro a provocare una sensazione di spaesamento.

E, diciamolo, quel po’ di disagio o di nausea.

Appunto: noi proviamo, materialmente, una sensazione di nausea in auto, in barca o in aereo quando i nostri organi sensoriali – la vista e le strutture dell’equilibrio nell’orecchio interno – che dovrebbero registrare e anticipare il movimento e la direzione mandano al cervello segnali discordanti.

Il cervello fatica a tenerli insieme, il nervo vago viene sovrastimolato e il risultato è quella brutta sensazione lì.

Proviamo un disagio non troppo dissimile, a livello cognitivo, quando siamo di fronte a informazioni non congruenti fra loro o, peggio ancora, contraddittorie rispetto a qualcosa che già sappiamo o crediamo. In questo secondo caso si verifica il fenomeno della dissonanza cognitiva messo in evidenza da Leon Festinger nei 1957: un disagio psichico che si arresta solo quando, in una maniera o nell’altra e perfino autoingannandoci, riusciamo a risolvere la contraddizione.

Certo: crediamo di essere ormai abituati a una politica zigzagante tra tattiche opportunistiche di brevissimo termine. E non ci scandalizza nemmeno la pratica paradossale di discutere nomi, definizioni, collocazioni e alleanze ben prima di mettere a fuoco le idee e i progetti. ‘Sta roba, nel paese dei nipotini di Machiavelli, è endemica quasi come la malaria nell’Africa sub-sahariana.

Il fatto che la conosciamo bene, ‘sta roba, non la rende però meno molesta: lo testimonia non solo l’invidia da più parti dichiarata in questi giorni per la dura linearità del confronto elettorale statunitense, ma anche quell’ineliminabile senso di dissonante spaesamento, di nausea fisiologica che ormai affligge perfino gli osservatori smaliziati.

Per non parlare dei tanti che proprio non ne vogliono più sapere niente. Dei tanti che, alla disperata ricerca di un punto fermo, vanno a trovarselo nell’antipolitica che si esprime in un vaffa universale. Dei tanti che sperano nell’ennesimo leader carismatico (ehi, abbiamo già dato! E più volte! Non funziona così!).

E qui, raschiando raschiando, vien fuori l’equivoco di fondo: la somma caotica delle microtattiche di sopravvivenza politica che, ne sono certa, a chi le pratica appaiono sensate, necessarie, legittime e anche astute, si sta traducendo in un collasso del senso che rende storto e indecifrabile l’intero sistema.

Cittadini normali, dotati di un normale cervello umano che per funzionare deve collocare se stesso in una prospettiva stabile e coerente, umanamente non sono attrezzati a starci dentro.

Così il malessere cresce, insieme al sospetto che, sotto l’equivoco di fondo, non ci sia più neanche un fondo.

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