Questioni di metodo/3: c’è un problema?

Dunque: immaginate che un tizio abbia un problema. La cosa giusta da fare è cercare subito una soluzione, no?

In realtà, e nonostante le apparenze, la risposta è “non proprio”. Prima, conviene capire com’è fatto il problema (per esempio: molti problemi hanno una sola soluzione possibile, ma molti altri ne hanno molte, diversamente possibili. E già questo fa qualche differenza).

E, prima ancora, conviene capire se il problema è proprio quello lì. O se, magari, quello che sembra essere “il” problema non è che la conseguenza di qualcos’altro (allora, per trovare una soluzione efficace, conviene ragionare direttamente su quel qualcos’altro).

Joseph Rossman, già nel 1931 e in un testo intitolato

The psychology of the inventor, stila un (citatissimo) elenco di passaggi da farsi per affrontare un problema.

  • 1) Osservazione della difficoltà

  • 2) Formulazione del problema

  • 3) Revisione delle informazioni disponibili

  • 4) Formulazione di soluzioni

  • 5) Esame critico delle soluzioni

  • 6) Formulazione di nuove idee

  • 7) Sperimentazione e accettazione della soluzione

Il punto più critico dell’elenco è proprio il secondo. Se non ci state sopra un po’, rischiate di buttar via un sacco di lavoro (è un classico errore da pivelli entusiasti. Le vecchie volpi spesso arrivano prima alla soluzione proprio perché partono più lentamente e con maggior cautela).

Prendere sul serio il punto 2) significa farsi una quantità di domande. Di quali elementi è fatto il problema? Ci sono elementi che lo fanno diventare più o meno rilevante? Se il problema avesse una forma o una struttura, quale sarebbe? Lo si può dividere in sotto-problemi, magari individuando obiettivi intermedi? Tutti i dati necessari sono disponibili, o ce n’è qualcuno, magari nascosto, che conviene cercare o approfondire? E così via.

E soprattutto: qualcun altro ha già avuto a che fare con problemi simili, magari in un ambito del tutto diverso, e ha trovato una soluzione? Il tempo passato a documentarsi raramente è sprecato, e spesso perfino dalle soluzioni già tentate, ma sbagliate o inefficaci, si può imparare qualcosa.

Non siete ancora convinti? Considerate che ciò che distingue un cervello umano da un computer non è certo la velocità, ma la capacità di definire bene problemi mai incontrati prima, e i cui dati di partenza non sono già strutturati. Beh, c’è un fisico indiano che si chiama Anirban Bandyopadhyay, e sta cercando di costruire

un nanocompter biologico che funziona così.. quindi almeno per ora, e finché è possibile, godetevi il vantaggio e dedicate al problem setting tutto il tempo che serve.

E sì: risolvere un problema è sempre una faccenda di creatività. Ma, nonostante le apparenze la parte più dura è proprio quella iniziale: quando uno sta lì, e osserva, e raccoglie i dati, e li mette in ordine, e cerca una sintesi, e scava fino ad arrivare al nocciolo, con tutta la pazienza che serve. Fra l’altro, l’esortazione “calma e gesso” si riferisce al giocatore di biliardo che, prima di un tiro difficile, si prende il tempo necessario a valutare la posizione delle biglie e tutte le possibili traiettorie, e intanto prepara bene la stecca strofinandone la punta col gesso. Solo così il tiro verrà preciso come deve essere.

Internazionale mi ha formalmente autorizzata ad andarmene più o meno in vacanza. Assai grata, lascio in ostaggio le più sfiziose tra le questioni di metodo uscite su Nuovoeutile: le trovate qui per tutto agosto. Ehi, questo è un arrivederci a tutti, a settembre.

Annamaria

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