Milano, liceo classico del centro. Succede che sei – tre ragazze e tre ragazzi – sui ventiquattro studenti diciassettenni di una classe del penultimo anno decidano di andarsene a studiare all’estero e si disperdano per tutto il Nordamerica. Che succede dopo? Ho scritto a ciascuno per chiederglielo, in nove domande.

Dove stai? Che razza di posto è?

Martino è a Vancouver, in Canada, “l’unica città dove puoi incontrare un orso aspettando l’autobus sotto la pioggia.” Anita è a Quincy, un paese agricolo di seimila anime, per il 70 per cento latinos, a due ore da Seattle. Eleonora è in California a Santa Barbara, magica per via delle montagne e dell’oceano. Michele è a Worcester, in New England: una sterminata distesa di villette per 200mila abitanti.

Marta è a Lucasville, in Ohio, 2.757 (più 1) abitanti: sta in una casa in mezzo ai boschi a due miglia da ogni forma di civilizzazione. Antonio è a Loretto, in Tennessee, 1.700 abitanti: boschi, campi, nient’altro.

Com’è la tua famiglia? È stato facile integrarsi?

Nella famiglia di Martino ci sono due figli piccoli, che lui si è dato da fare per conquistare. Genitori simpatici e aperti. Anita è in una famiglia di laboriosi agricoltori (mais, mele, grano, piselli) mormoni con sei figli, tutti fuori casa tranne l’ultimo, ancora adolescente. Religiosissimi – chiesa e comunità – e freddi: hanno buone intenzioni ma il dialogo non è così semplice.

Eleonora si è integrata bene tra mom, dad e siblings. Michele abita con Linda e Bill, un italoamericano di terza generazione: lo trattano come un figlio. Marta si trova benissimo con una host mum “molto amorevole” e anche Antonio si è integrato in una famigliona di due genitori-nonni, tre figlie adulte sposate, svariati nipoti che spesso si ritrovano tutti assieme.

Qual è, se c’è stato, l’ostacolo maggiore che hai dovuto affrontare?

“Shock e confusione” per Martino, specie nelle prime settimane, per la differenza di cultura e background che separa un italiano da un canadese. “Iniziare a stringere veri rapporti” per Anita. “Sfumature linguistiche, fraintendimenti, difficoltà a esprimersi e a capire” per Eleonora.

“Entrare nei giri di compagni di classe che si conoscono tutti da anni” per Michele, unico europeo in un grande college con un 30 per cento di studenti asiatici. Ci sta ancora lavorando, ma di settimana in settimana la situazione migliora. Anche per Marta non è facile interagire con i compagni e a scuola non c’è molto tempo per socializzare.

Nei primi tempi impatto duro per Antonio, soprattutto per “la fatica di dover ogni giorno, e per tutto il giorno, sforzarsi per spiccicare anche solo una frasetta di tre parole”.

Cosa hai trovato che proprio non ti aspettavi?

Martino è rimasto colpito dalla sensazione di ordine che Vancouver esprime: “Sembra che tutto sia calcolato e progettato per ottenere il massimo”. Anita dal fatto che “le priorità, la vita e il tempo qui sono del tutto diversi rispetto a una grande città”.

Eleonora ha dovuto confrontarsi con usi e costumi differenti e ha “sentito terribilmente la mancanza di famiglia e amici”. Michele si è sbalordito per “l’ignoranza di cose che da noi sanno tutti: c’è gente anche istruita che non ha mai sentito parlare di Verdi o Van Gogh, o che non sa nulla di geografia e può uscirsene con perle come: ‘South Africa? Isn’t it in South America?’”.

Anche Marta rileva ostacoli culturali: “Ogni tanto sento uno strano blocco per cui non riesco ad andare oltre al sì sono italiana, no non abbiamo il burro di noccioline”, mentre Antonio è colpito dalla “facilità con cui gli americani fanno amicizia con persone appena incontrate”. Ma già, lui è quello che sta nel paesino di 1.700 anime.

Cosa stai studiando?

Una carrellata di materie: inglese, fisica, matematica, chimica, biologia, algebra, spagnolo (Anita) British Columbia culture (Martino) e american culture o storia americana (gli altri) e poi psicologia, musica, informatica, teatro, economia, anatomia, salute… Martino fa parte della squadra di canottaggio. Anita fa pallavolo. Eleonora è nel team di golf avanzato e farà volontariato. Michele è entrato nella squadra di calcio Junior Varsity e progetta, in primavera, di andare a costruire case per i senzatetto con il gruppo scolastico di Habitat for humanity. Marta sta pensando di entrare nella squadra di nuoto e di fare teatro. Antonio è nella squadra di football americano: allenamenti impegnativi e partita ogni venerdì sera.

Qual è la maggiore diversità tra la scuola italiana e la tua nuova scuola?

Martino è decisamente positivo: l’organizzazione e l’impiego della tecnologia (“Usiamo Dropbox per consegnare i compiti”) facilitano le cose e il lavoro di classe e di gruppo è più valorizzato. Anita prende le distanze: si studia in modo generico, passando poco tempo sui libri e senza curare l’espressione o l’esposizione dei contenuti. Eleonora segnala che per ogni materia gli studenti cambiano aula, che le aule sono attrezzate (provette e modellini nell’aula di biologia, copie della “declaration of independence” in quella di storia) e che questo aiuta a concentrarsi.

Michele è assertivo: “In classe non mi annoio”. Anche Marta segnala i vantaggi del cambiare aula e la possibilità di costruirsi un programma personalizzato. Antonio spiega “nella scuola italiana ci sono solo materie accademiche e vige una gerarchia fra materie più o meno importanti. Qui invece ci sono molte materie differenti. Inoltre materie che noi non considereremmo nemmeno, come nursing o drama, hanno lo stesso valore di una lezione d’inglese”.

Come sono gli insegnanti?

“Gli insegnanti sono molto giovani e coinvolgenti” (Martino). Dei modi informali, amichevoli e cooperativi dei docenti sembrano tutti, qualsiasi siano la scuola e il luogo, felicemente stupiti: “Gentili e pronti ad aiutare” (Anita). “In Italia è tutto molto più formale, qui si parla più liberamente di difficoltà e problemi” (Eleonora). “Sono stupendi, sempre disponibili a rispondere alle domande e a darti dell’aiuto extra nel caso ti serva” (Michele).

“Tutti i professori si sono dimostrati molto gentili, si preoccupano per me, sia dal punto di vista scolastico sia da quello del morale. Molti di loro cercano di integrare nella lezione nozioni sull’Europa e sull’Italia facendomi domande inerenti alla loro materia” (Marta). “Gli insegnanti sono sempre disponibilissimi per ogni tipo di aiuto o consulenza. Se prendi un brutto voto, ci tengono che tu rimedi” (Antonio).

Qual è la cosa che ti sta piacendo di più di questa esperienza?

Anche su questo punto tutti sono concordi nell’apprezzare il moltiplicarsi delle prospettive e il cambiamento: l’esperienza “valorizza gli aspetti unici della cultura italiana e mostra differenti e splendidi aspetti di altre culture” (Martino). “Ti aiuta a capire le grandi diversità che possono esistere sia tra i luoghi sia tra le persone, i modi di vivere e di pensare” (Anita). “Sto amando ogni singolo dettaglio di questa esperienza, anche le cose che all’inizio credevo non mi piacessero” (Eleonora). “La cosa che mi sta piacendo di più è il cambiamento totale che ho fatto: scuola, famiglia, amici, lingua, paese. Tutto è cambiato!” (Michele).

“È come se fossi sempre vissuto qua: un posto dove è normale guidare per tre miglia per andare a comprare il latte e andare a caccia di daini sotto casa” (Marta). A tutto questo Antonio aggiunge “l’entusiasmo che gli americani riescono a tirare fuori in ogni circostanza”.

… c’è qualcosa che vuoi aggiungere?

Martino: “Ci sono procioni e scoiattoli ovunque, gli orsi mangiano nella spazzatura e le giubbe rosse cercano dei giaguari nella zona. Consiglio quest’esperienza a chiunque”. Anita: “Sono solo all’inizio di questa mia nuova vita… e abbastanza sicura che andrà tutto bene”. Eleonora: “Sto imparando più cose qui che in 16 anni passati a casa, perché ora ho un modello a cui paragonare l’Italia. Ho sempre viaggiato, ma vivere in un paese per un anno è un’altra storia”.

Michele: “Ho addirittura imparato come si monta un’impalcatura di tre piani aiutando il mio host father che doveva riparare il camino!”. Antonio: “Basti dire che dopo un mese e mezzo che sono qua ho quasi deciso di chiedere il prolungamento del programma da sei mesi a un anno”.

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