Tra un periodo e il successivo, o tra una domanda e una risposta. Tra una nota e l’altra (“music exists in the space between the notes”, dice Miles Davis). E poi: tra discipline scientifiche. Tra ecosistemi contigui. Tra stati. Tra sonno e veglia. Tra coraggio e temerarietà. Tra campagna e città. Tra granelli di sabbia. Tra cellule.
Le cose che confinano non sempre collimano alla perfezione. E non sempre i confini sono netti. Se rimane un vuoto in mezzo, quel vuoto è spesso ricco di potenzialità.
Negli interstizi si verificano attriti, slittamenti, frizioni, scarti. Si annidano scorie, avanzi, permanenze, indizi. Negli interstizi possono aprirsi varchi, e i varchi si possono squarciare in aperture verso nuove prospettive.
Muovendosi negli interstizi tra fantascienza, fantasy, horror e cinema Stephen King libera frammenti autobiografici e tutti i suoi fantasmi personali, inventa Roland di Gilead e un intero universo e scrive gli otto libri della saga della* Torre nera*, il suo (interstiziale, anche per pubblico) magnum opus.
Scavando scavando negli interstizi tra grafica, design, illustrazione, pittura con l’aiuto di uno humour di straordinaria sottigliezza e del proprio magnifico eclettismo, quel genio di Piero Fornasetti produce, invece, un universo di vassoi e portaombrelli, piatti, piastrelle, vasi e zuccheriere, e lo anima di amichevoli presenze surreali.
Contaminandosi negli interstizi tra graffiti, fotografia, video, corpo umano (sangue, nudità, merda d’artista), prodotti e cultura di massa, gesto, scandalo, morte e altro ancora, un bel pezzo di arte contemporanea si dipana disorientando il pubblico e, con ciò, raggiungendo infallibilmente il proprio obiettivo.
Nascoste negli interstizi si ibridano nuove forme di espressione. Fenomeni di assoluta nicchia possono, per vie misteriose, diventare mainstream: all’inizio degli anni novanta le scarpe senza lacci e i calzoni larghi senza cintura dei detenuti americani neri (in carcere lacci e cinture sono vietati) diventano l’uniforme mondiale dell’hip hop. E via, ecco tutti gli adolescenti, non ultimi i bravi ragazzi di buona famiglia, con le mutande di fuori.
A metà degli anni novanta le ciabatte infradito usate nelle favelas delle megalopoli brasiliane si trasformano in un batter di ciglia in un must occidentale, e schiere di mannequin ciabattano sulle passerelle dell’alta moda con ciabatte non troppo dissimili da quelle dei diseredati, ma cento volte più costose.
Negli interstizi della memoria si annidano frammenti di ricordi che possono dilatarsi in modo sorprendente: tutta la Recherche compressa in una madeleine. Ma anche: tutti i Natali della nostra infanzia in un profumo di mandarino.
Negli interstizi della percezione turbinano dettagli intercettati con la coda dell’occhio, retrogusti, suggestioni subliminali che forse riemergeranno in una delle prossime notti, nel bel mezzo di un sogno ispiratore.
Negli interstizi tra matematica, informatica, nanotecnologie, neuroscienze e scienze comportamentali, linguistica robotica, scienze dell’informazione crescono gli studi sull’intelligenza artificiale. Ne riparliamo tra vent’anni, e, magari, invitiamo il nostro amico del cuore, il robot Robi, a dirci che ne pensa.
Nei vuoti, nelle rotture, nelle lacune, infine, si nascondono opportunità creative: e se qualche volta la colpa è di Titivillus, il diavoletto degli strafalcioni immaginato dai copisti medievali (poi patrono degli scribi e degli errori), qualche altra volta nel vuoto si esprime intenzionalmente la maestria dell’autore: “La lacuna espande il senso, portando la significazione oltre i limiti fisici delle parole scritte”, scrive Nicola Gardini.
Gli interstizi sono sempre interessanti. Perfino nell’interstizio tra cuscini e schienale del sofà di casa, tentando con la mano, si rischia di trovare qualche monetina. Basta farsi prendere da quel minimo di curiosità, e tastare.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it