“Il mondo degli affari deve combattere una persistente battaglia contro la burocrazia”, scrive l’Economist. E aggiunge che, per chi lavora nelle imprese “la cianfrusaglia più debilitante è la complessità organizzativa”.
Ma, almeno, e come dice Tullio De Mauro in Capire le parole, fin dai tempi di John Locke la cultura anglosassone, inglese e americana, si è impegnata in una battaglia per la limpidezza e la chiarezza dei testi come valore supremo dell’arte dello scrivere e del parlare.
Se dalle pagine dell’Economist si leva un severo brontolio d’insofferenza per la complessità inutile dei processi aziendali, qui da noi le proteste contro ciò che è complicato sono ormai diffuse su tutti i mezzi di comunicazione, rete compresa. Sono assai più veementi, e riguardano sia i modi di fare sia i modi di dire.
Cresce l’irritazione per le procedure inutili, insensate e spesso opache che continuano a vessare i cittadini e ad azzoppare la pubblica amministrazione (e, di conseguenza, a danneggiare anche quelle imprese che, con le procedure inutili, non si azzoppano da sole).
Ma cresce anche il fastidio nei confronti dell’insopprimibile mania nazionale di parlare astratto e complicato: burocratese, pedagoghese, medichese, giuridichese, sindacalese… a cui si associa il più recente itanglese: un vezzo linguistico che si estende a più settori (marketing, politica, tecnologia, moda e altri), e che permette di rivestire di echi esotici e arcani qualsiasi gesto, concetto o oggetto, compresi i più quotidiani. E se poi la traduzione è imprecisa, pazienza.
Il filosofo Massimo Baldini, in Elogio dell’oscurità e della chiarezza (qui ampi estratti del testo) tira in ballo perfino il difficilese. Cioè la scelta di parlare in modo oscuro “per puro terrorismo linguistico”. Un comportamento da vere carogne, in un paese che (è ancora Tullio De Mauro a dirlo) ha alte, anche se per fortuna decrescenti, percentuali di analfabetismo primario, di ritorno e funzionale.
Aggiungo solo che il parlare e lo scrivere difficile non risparmia neppure il parlamento italiano (Ichino: il parlamento vota leggi che i suoi membri non capiscono).
Ma perché la semplicità è così difficile da ottenere?
Essere semplici è faticoso. Per riuscire a parlare e a scrivere in modo semplice bisogna conoscere bene l’argomento. Bisogna saper usare benissimo la lingua italiana, sfruttandone tutte le risorse. C’è da investire tempo, attenzione, una dose di talento. Bisogna anche avere un’idea chiara di quello che si sta dicendo, del perché e del per chi: una faticaccia che molti scelgono di risparmiarsi.
Per mettere a punto procedure semplici bisogna aver chiari i vincoli, le necessità e gli obiettivi e maturare una visione d’insieme che metta a confronto costi (tempo compreso) e valore dei risultati.
Bisogna sperimentare ed essere disposti a fare aggiustamenti. Bisogna mettersi nei panni di chi dovrebbe poi seguirle, quelle procedure. Bisogna avere l’umiltà necessaria per andare a scovare esempi virtuosi dovunque siano, per studiarli, adattarli e poi metterli in pratica. Altra faticaccia.
Essere semplici è pericoloso. Se un testo è semplice, e tutti lo capiscono, diventa possibile per chiunque fare obiezioni. E poi: denunciare una semplice sciocchezza è più facile che intercettare un’oscura sciocchezza. E ancora: molte parole complicate tendono una bella rete mimetica sull’assenza di pensiero o di progetto.
Essere oscuri, dunque, è un fantastico modo per disincentivare critiche, per sottrarsi a ogni giudizio, per nascondere la propria incompetenza o per sancire e amplificare la propria competenza, per preservare la propria autorità suscitando in chi non riesce a capire sentimenti di frustrazione, di soggezione e di inadeguatezza.
Risultati analoghi si ottengono, se parliamo di procedure, moltiplicando all’infinito gli adempimenti, e con questi gli oneri e le attese necessarie a compilare moduli, a collezionare timbri, ricevute e altre misteriose scartoffie. Con un vantaggio in più: la legittimazione e il presidio dell’esistenza stessa dell’apparato che genera la procedura, e del suo opaco potere.
Essere semplici vuol dire prendersi delle responsabilità. Sto parlando di molte, pesanti responsabilità: quella di scegliere che cosa è importante e che cosa non lo è. Quella di dar conto delle proprie scelte, motivandole. Quella di investire tempo, energia e intelligenza per tradurre e spiegare ciò che non può essere semplificato, perché non è vero che tutto è potenzialmente semplice. E poi c’è la responsabilità più gravosa di tutte: quella di elaborare pensieri chiari e distinti, ipotesi plausibili, soluzioni efficaci e strategie fondate.
Per quanto riguarda le procedure: progettare percorsi semplici chiede di passare dalla logica dell’adempimento rituale a quella dell’obiettivo reale. La qual cosa implica l’onere di definire obiettivi chiari, distinti, utili e verificabili: un’altra responsabilità che molti faticano ad accollarsi.
Eppure.
Eppure in questi tempi caotici, sovraccarichi di informazioni e scarsi di prospettive, essere semplici (occhio: “semplice” non vuol dire né sempliciotto né facilone) è, credo, un imperativo. Per questo stiamo tutti diventando così insofferenti nei confronti della complessità inutile. Solo affrontando la fatica, il pericolo, la responsabilità e la sfida di essere semplici c’è la speranza di restituire un senso forte e condiviso a quello che si dice e a quello che si fa.
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