Torino, mercoledì 9 maggio, sera
“Ogni anno il coefficiente di difficoltà aumenta, e ogni anno abbiamo un Salone migliore del precedente. Ma le due cose non devono necessariamente andare insieme”. È un Nicola Lagioia affaticato ma elettrico a inaugurare con questa affermazione la trentunesima edizione del Salone del libro di Torino, nell’impressionante spazio industriale delle Officine grandi riparazioni: solenne, scuro, possente, gremito.
Dopo un anno pieno di incertezze, al Salone ci sono di nuovo tutti gli editori italiani: oltre mille distribuiti in cinque padiglioni, compresa la nuova tensostruttura. C’è un programma sterminato: 1.738 incontri ed eventi, 500 dei quali diffusi sul territorio. Ci sono premi Nobel, Oscar, Pulitzer e Goncourt, a rimarcare che eccellenza culturale e dimensione commerciale possono non essere in contraddizione.
E ancora: ci sono 27mila studenti iscritti. Ci sono oltre 40 paesi presenti. C’è un valore stimato per la città di Torino di 30 milioni di euro tra visitatori (il 37,2 per cento dei quali torna ogni anno regolarmente da sette anni), espositori e indotto: a scriverlo è Paola Italiano sulla Stampa, riportando i risultati di una rigorosa valutazione svolta dall’Università di Torino.
Alle Officine grandi riparazioni, Fabrizio Gifuni legge brani dalle lettere pubbliche e private e dal memoriale di Aldo Moro. Sono un pensiero, un linguaggio e una scrittura degli affetti e della politica a cui non siamo più abituati. L’enorme sala sembra sospesa tra passato e presente. Fuori diluvia. Lo scroscio si riverbera nel buio.
Mercoledì, poche ore prima
Alle cinque del pomeriggio, nel Salone, tutto è ancora per aria: muletti che girano, operai che montano e martellano, scatoloni ovunque: sembra impossibile che la mattina dopo tutto possa essere pronto.
È questo il momento in cui meglio si può percepire la dimensione del libro come merce: oggetto materiale e prodotto industriale. E in cui si percepiscono anche la passione, la dedizione e il coraggio di questa industria piccola, tenace e speciale.
L’unico stand in cui tutto è già in ordine è quello di Adelphi, con i volumi schierati in file e colonne perfette, come se fosse passato di lì Charles Carson, il maggiordomo della serie Downton Abbey che dispone le posate sulla tovaglia allineandole con il righello.
Giovedì 1o maggio, mattina
File lunghissime, pazienti e ordinate, ai cancelli. C’è aria di attesa e di festa, anzi: di gita. File anche fuori dalla Sala Gialla, la più grande, per l’incontro di apertura. Massimo Bray apre in modo istituzionale, ma ricorda le sofferenze dei fornitori, il cui senso di responsabilità ha permesso di aprire il Salone anche quest’anno. Maria Elisabetta Alberti Casellati si presenta con un singolare tailleur total look di pelle nera. Sono così affascinata che non riesco ad appuntarmi neanche una delle cose che dice.
Roberto Fico è in jeans e giacchetta, e afferma che è dovere dello stato democratico sostenere la bibliodiversità. Dario Franceschini è in giacca e cravatta, rivendica di aver quintuplicato i fondi delle biblioteche. E poi: un milione per le biblioteche scolastiche. Il credito fiscale per le librerie.
L’ambasciatore francese Christian Masset parla di riconoscenza, creatività e audacia, futuro. Monica Maggioni parla di integrazione tra libri e mass media. E Nicola Lagioia ricorda che gli scrittori fanno il contropelo alla storia. Hanno il coraggio dell’impopolarità e del buonsenso, quando al giorno d’oggi è così facile cavalcare l’irrazionalità.
A fare il contropelo c’è lo spagnolo Javier Cercas che parla di Europa, in una lectio magistralis intitolata “E pluribus unum: l’Europa e l’eroismo della ragione”.
Cercas esordisce ricordando che “metà di un libro ce la mette lo scrittore; l’altra metà ce la mette il lettore. Un libro è soltanto una partitura, e sono i lettori a interpretarla, e per di più ogni lettore la interpreta a modo suo. Un libro senza lettori è soltanto lettera morta; è quando il lettore apre le pagine del libro e inizia a leggerlo che quella lettera morta acquista vita, una vita ogni volta nuova e diversa. Per questo i lettori arricchiscono i libri, aggiungendo loro dei sensi che senza dubbio erano nelle pagine, ma dei quali non sempre l’autore era del tutto consapevole”.
Poi, entra nel merito e dice: “Il problema è che, al di là del fatto che è il continente in cui vivo, non so bene cosa sia l’Europa; difatti, se mi vedessi costretto a rispondere con una sola frase a questa domanda, probabilmente la cosa più onesta sarebbe riprendere ciò che dice sant’Agostino, nelle sue Confessioni, all’inizio di una sensazionale riflessione sulla natura del tempo: ‘Se nessuno mi domanda cos’è l’Europa, lo so; però, se voglio spiegarlo a chi me lo domanda, non lo so’. Ma sto mentendo: qualche cosa dell’Europa sì che la so”.
Le cose che Cercas sa dell’Europa dovremmo sempre ricordarcele anche noi, primo fra tutti il fatto che grazie all’Europa abbiamo vissuto tutti quanti “il periodo di pace e prosperità più lungo dai tempi della guerra di Troia”.
Si tratta di un discorso, ve lo assicuro, intenso e folgorante, e vi invito ad ascoltarlo qui (da 1:03:00) o a scaricarlo e leggerlo qui.
La gente esce pensosa e appagata. Una nuvola di fotoreporter insegue Roberto Fico. Io me ne vado in giro per gli stand, a intenerirmi pensando a quanti ragazzi ci sono, e quanto sembrano sentirsi a casa.
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